Luoghi dell’intersoggettività

Noi del CEPEI, da tempo, secondo accordi e convenzioni, seguiamo alcune Comunità per Minori e Disabili.

Nel gruppo dei colleghi c’è chi accompagna nella riflessione, con sedute di supervisione, gli educatori; c’è chi promuove incontri di “formazione permanente” per loro e chi, in percorsi individuali di psicoterapia, affianca i ragazzi delle Comunità nella loro crescita, cercando di sostenerli nelle difficoltà della vita, di riflettere opportunamente con loro sulle scelte a cui sono chiamati, perché non abbiano ad incespicare inutilmente tra un ostacolo ed un impedimento. In tal modo i terapeuti coinvolti cercano di stimolarli ad acquisire un valido metodo di “riflessione” , ovvero un metodo ed uno strumento che consenta loro di rapportarsi alla vita con quello specifico taglio che, nel CEPEI, consideriamo assolutamente utile ed imprescindibile: vedere in ogni individuo un Soggetto, in ogni relazione lo spazio preziosissimo di un legame intersoggettivo e la possibilità di una evoluzione in senso riflessivo per entrambi gli attori dell’esperienza relazionale e di cura.

All’interno di queste attività del CEPEI, anch’io ho seguito per parecchio tempo un ragazzo.

Lo chiameremo D. ed è di questa mia esperienza che vi voglio parlare un po’, perché il lavoro con i ragazzi che vivono in comunità è cosa veramente singolare e si rivela più che mai significativa dal punto di vista professionale per un terapeuta che ami “crescere” egli stesso, quando “incontra” un paziente, e di volta in volta lo “rincontra” nella cura.

Infatti è nella relazione con questi giovani che, più che mai a mio avviso,  entra in gioco la validità del modello terapeutico “CEPEI”, fondato sugli aspetti dell’intersoggettività e della riflessività che vengono assunti come cardini della crescita in senso evolutivo del Soggetto.

In tale  modello – intersoggettivo, riflessivo – del CEPEI, non c’è da un lato la malattia e di fronte la cura; non c’è il terapeuta. e davanti a lui il paziente; c’è la relazione e nella relazione si dipana il processo in cui ad ognuno dei soggetti interagenti  è data la possibilità di “crescere”, evolvere,  in virtù dell’altro al quale si rapporta..

Non intendo qui riferire per filo e per segno del lavoro fatto con D., ma semplicemente richiamarne per sommi capi alcuni aspetti e, soprattutto, mi preme mettere in luce la natura curiosa della relazione che si era instaurata tra noi e di come, grazie all’esperienza fatta con D., io mi sia ritrovata “arricchita” umanamente e professionalmente.

Ricordo che quando D. veniva da me, avevo sempre l’impressione che, al mio aprire l’uscio, entrasse nel mio studio un extraterrestre, non un essere umano.

Erano gli anni della sua crescita e, conosciutolo ragazzino, in un battibaleno D. si era fatto alto, grosso e robusto; in un tempo tutto sommato piuttosto veloce, le sue spalle erano diventate  ampie e ben squadrate. Zavorrato dal carico dello zaino con cui andava a scuola e poi arrivava da me, stentava sempre a passare attraverso lo spazio angusto del battente della porta d’ingresso ed ogni volta mi faceva temere qualche danno, in particolare  la demolizione degli stipiti e/o lo  scardinamento dell’uscio.

A darmi questa impressione di avere di fronte un alieno, piuttosto che il ragazzino timido e schivo che avevo conosciuto inizialmente, quando da me lo aveva accompagnato un educatore della sua comunità, contribuiva decisamente tutto l’armamentario di fili, cavetti, cuffie, batterie portatili, cellulari e cover multicolori che facevano da corredo al suo aspetto, già caratterizzato – come poteva essere diversamente, data la giovanile età di D. e la sua appartenenza alla specifica cultura della sua area di appartenenza? – da pantaloni a cavallo basso (anche bassissimo), scarpe da ginnastica “cingolate”, felpe “incappuccianti”, zaini da esplorazioni polari, orecchini, piercing, catenine ed infine –  si pensi un po’ che strano! – un  orologio da polso … normale!!!

Scherzosamente, direi, era questo il particolare che mi faceva sempre ben sperare sull’esito del nostro comune lavoro!

D. utilizzava il mio bagno ed ogni suppellettile del mio studio con agio e familiarità confidenziale: si sentiva, era evidente, potremmo dire proprio più che a casa sua.

E mi faceva spesso ascoltare delle canzoni (a volte le canterellava pure ed io gli facevo magari da voce di contrappunto) che aveva selezionato per me, per ore e giorni prima del nostro incontro settimanale.

Non erano dedicate a me, ma destinate a me, perché io potessi conoscerlo oltre l’aspetto e oltre la superficie; lo potessi raggiungere nello spazio recondito del suo animo; potessi avvicinarmi ai suoi sogni; ascoltare e condividere le sue emozioni: quelle positive; ma anche le altre, di cui non gli era proprio facile parlare con nessuno e neppure con me.

Un giorno di quelli “musicali”, mi fece sentire di Emis Killa “L’erba cattiva” e ne rimasi sbalordita: la canzone era cruda e bellissima.

Il cantante diceva  nel testo di non sapere s’egli fosse  buono o cattivo; cattivo come l’erba cattiva che non muore mai; poi osservava come, comunque, egli fosse lì, vivo e affermava che  questo era il fatto più importante.

Ascoltai attentamente e le parole del testo, la musicalità del brano, la voce dell’interprete, quasi digrignata tra i denti, mi toccarono: in quel testo c’era il pensiero di D. su di sé; il pensiero di un giovane, tutt’altro che stupido, appena affacciatosi alla  tremenda complessità della vita.

Un giovane spaventato dalla  incomprensibilità dell’esistenza; tuttavia, aderente realisticamente alla vita che, seppur grama, percepiva come  un valore, un valore innegabile ed assoluto.

Quel giorno, uno tra i molti “musicali”, sentii che da quel ragazzo, così lontano per età, formazione, sensibilità, da me, potevo ed avevo molto da imparare … se mi fossi messa in ascolto nel giusto modo: favorendo ed potenziando lo spazio relazionale dell’Intersoggettività Riflessiva.

In quella circostanza, dunque, ancora una volta mi sentii invitata, dalla particolare situazione di lavoro che si dava, a far tesoro di alcuni capisaldi del pensiero  psicologico analitico che, radicati nell’elaborazione teorica già di C. Gustav Jung, ma poi ripresi e rivisitati da S. Montefoschi, erano infine arrivati a me per il fortunato apporto e contributo di altre importanti figure e meritevoli pensatori, tutti interessati al tema della funzione e del valore della relazione nel lavoro di cura in psicoterapia.

Ad ognuno di questi eminenti teorici sento di dovere qualcosa di significativo della mia professionalità: con il loro pensiero e le loro opere mi hanno offerto spunti, proposto riflessioni ed anche – cosa molto utile – contrapposto obiezioni; inoltre, sani, altri, e fertili punti di vista che avrei ( e in particolari casi, molti, così è stato), potuto far miei.

In particolare, la recentissima lettura di “Confini borderline – Psicoterapia analitica intersoggettiva dei disturbi di personalità”, di P. Cozzaglio (ed. Franco Angeli, 2017),  aveva rinnovato in me la fondamentale presa di coscienza, ad esempio, della pericolosità delle situazioni che si possono verificare nella clinica se la medicina e la psicologia dimenticano il Soggetto e parlano del soggetto solo quale oggetto di studio e descrivono l’uomo nella sua generalità di specie e nel suo comportamento oggettivo.

Attraverso l’ampia e mai trascurata serie dei possibili confronti – percorso di molti anni e che non era stato del tutto semplice per me – ho sentito che nell’opera  di P. Cozzaglio potevo trovare una validissima sintesi delle riflessioni ed elaborazioni relative al tema dell’ intersoggettivitá e che potevo avvalermi di  una  presentazione chiara ed illuminante dei concetti che fanno da cardine a tale tema, nonché una voce guida a cui riferirmi nelle difficoltà della clinica.

Ho sentito che il materiale presentato nel volume e l’ampio e preciso impianto teorico mi riguardavano nel profondo e che il volume conteneva ed organizzava una serie di osservazioni che mi era capitato di fare, intuitivamente, nel lavoro coi pazienti, ma che premevano perché ad esse  dessi chiarezza, consequenzialità e massima sistematicità.

A chiarire come il pensiero di P. Cozzaglio  facesse al caso mio, e ben si attanagliasse con quel che D. mi portava di sé nello studio, stralcio dal suo libro (op. cit. pag 19), un passo a mio parere emblematico, che chiarisce  l’accezione particolare con cui l’autore  approccia il concetto di Intersoggettività e la peculiarità della sua visione.

Egli scrive: “Ritengo che passare dal sentirsi “oggetto della cura  ( o dall’ idea di una cura del soggetto) ad essere Soggetto della cura sia lo scopo  intrinseco della cura stessa e l’unica via che può portare alla guarigione”.

Grazie all’assunzione della dimensione RIFLESSIVA, il concetto di intersoggettività, nella particolare concettualizzazione di P. Cozzaglio,  può sussistere. Infatti, valorizza e potenzia l’empatia; promuove un “oltre terapeutico”, dando “la possibilità di pensarsi individualmente riconoscendosi simultaneamente nell’altro: la spinta consapevole ad allargare in modo creativo la propria visione accogliendo le diversità (mia e dell’altro) reciprocamente”. (op. cit. pag. 45)

A questo rimando di concetti, bagaglio di riflessioni e patrimonio di pensieri mi aveva condotto, quel giorno, la cantata con il mio D. e dal mio averli presenti, si avvantaggiò tutto il nostro lavoro.

Laura Zecchillo

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