La Legge Basaglia, detta anche “Legge n. 180”- in tema di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” – è entrata in vigore in Italia il 13 maggio 1978. Essa è stata la prima e unica Legge quadro che, imposta la chiusura dei manicomi, regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Grazie all’entrata in vigore di questa legge, l’Italia si è posta come il primo, e fino al 2017 unico, Paese al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici. Lo psichiatra Franco Basaglia, ispirandosi al pensiero dello psichiatra statunitense Thomas Szasz, ne fu il promotore. Egli s’impegnò nel compito di riformare l’organizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale, proponendo un superamento della logica manicomiale. Estensore materiale della Legge fu, invece, lo psichiatra e politico democristiano Bruno Orsini. La legge n. 180 durò fino a che fu approvata la legge 23 dicembre 1978, n. 833, che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale, e conteneva al suo interno (con alcune modifiche) quasi gli stessi articoli della legge 13 maggio 1978, n.180. La precedente legge 14 febbraio 1904 n.36 non fu abrogata completamente. Gli articoli riguardanti la parte economica e fiscale della gestione dei manicomi rimasero in vigore; mentre, nella nuova legge, si fecero confluire gli articoli riguardanti il T.S.O. e l’abrogazione degli articoli principali della legge 14 febbraio 1904, n. 36.
Racconto
A. Smith venne nel mio studio molti molti anni fa.
Ora, nel quarantesimo anno dall’entrata in vigore della legge Basaglia, con cui sono stati chiusi in Italia i manicomi, recupero gli appunti del racconto che allora mi fece.
Ad essi do nuova dicitura, e li porgo ai nostri giovani lettori, perché in loro, dei fatti da lui narratimi, rimanga traccia.
Trasecolò.
Perché nulla, in quel che aveva visto ed udito, c’era di noto, umano e normale!
La ragazzina che un tempo aveva conosciuto e frequentato – il suo naso a patatina, le lentiggini spruzzate sul suo volto, la simpatia del suo sorriso aperto ed innocente – tutto questo non c’era più ed aveva lasciato il posto a qualcosa di triste e sconvolgente, di natura sconosciuta e non definibile.
C’era stato un lascito e a lui era stato affidato l’incarico di rintracciare Rebecca J. e di consegnarle la lettera con cui Monsieur Ghinot l’aveva nominata sua unica erede.
Il povero vecchio se ne era andato silenziosamente, come silenziosamente aveva vissuto, lavorando sodo e raggranellando giorno dopo giorno quella che, post mortem, si era rivelata inaspettatamente, una vera e propria fortuna.
Alla lontana, Rebecca era una sua parente: l’unica sua erede.
Rintracciarla era stata un’impresa, che A. Smith aveva perseguito con caparbia determinazione, per rispetto sincero dell’amico Ghinot, che gli aveva voluto bene ed in vari passaggi non facili della vita glielo aveva dimostrato; e perché di Rebecca, quella che aveva conosciuto ai tempi, si era – ora lo diceva con un sorriso autoironico – proprio invaghito, lui!
Ricordava ancora le gitarelle in barca, sul lago, che aveva fatto con lei, i giochi d’acqua, gli spruzzi, le risatine di Rebecca, gli occhi fuggitivi con cui lo tentava e che a lui parevano, nel sentire pieno di slanci della giovinezza, raggi di sole, belli ed ammiccanti tra nuvole oziose, vaganti ed incertamente permissive.
Ma ora…
Aveva chiesto di poterla vedere e di poterle parlare.
La suora in guardiola, robusta nel corpo e burbera nei modi, era stata un vero ostacolo: trinceratasi in un opportunistico e personale burocratichese e dietro un muro di reticenze e duri e refrattari “non so”, gli aveva fatto intendere, infine, dopo tanta e pervicace insistenza di lui, ch’egli avrebbe dovuto inoltrare domanda scritta alla Dirigente della struttura e confidare che, prima o poi, forse, venisse accolta la sua richiesta.
Smith si era attenuto alle indicazioni: aveva compilato di dovere una ossequiosa richiesta di colloquio e l’aveva inoltrata. Aveva poi atteso; sollecitato; sollecitato di nuovo e di nuovo ancora.
Un giorno si era sentito anche esasperato il necessario, per tornare sul luogo, riparlare con la suora-custode, lasciarsi andare teatralmente ad una esternazione, non da lui, con alterazione dei toni, finalizzata ad intimorire la sua interlocutrice ed ottenere da lei l’accesso agli spazi di Rebecca.
Così fu che gli venne concesso di visitarla.
La suora volle accompagnarlo da lei di persona.
Percorsero un corridoio, un altro ed altri ancora, la suora davanti e lui dietro. Attraversarono anticamere e atri; salirono e scesero per molte scale; gli spazi, blindati in un silenzio denso di angosce, risuonavano dei rumori metallici e tintinnanti dei mazzi di chiavi che la suora estraeva all’occorrenza, e poi riponeva nelle tasche del suo ampio e tristissimo abitone grigio.
Qua e là, nei corridoi sempre più bui, qualche carrello giaceva come dimenticato da tempo, e suggeriva presenze spettrali.
L’aria era ferma, stantia, maleodorante di tutto di più: respiri… repressi, cibi… avanzati, bagni ignorati…Gli si sbatteva contro solo all’aprirsi degli usci, nauseabonda e satura, di volta in volta, di una specifica disgustosa tipicità. Di volta in volta, Smith si era dato animo e, dettosi in cuor suo che non avrebbe dovuto né cedere né demordere, trattenendo il respiro quanto gli riusciva, aveva proseguito.
In fondo, dietro l’ultimo uscio che si era richiuso sbattendo alle sue spalle – e gli era parso che si fosse chiuso per sempre, per l’eternità tutta – Smith incontrò Rebecca.
Si sentì mancare.
Della bellezza giovanile d’un tempo nulla poté ravvisare nel volto e nel corpo di lei. Sotto il cespuglio grigio della massa incolta e ispida dei capelli, in un viso sfigurato da una fitta rete di rughe e da tristi solchi d’espressione, sprofondò nei suoi occhi vacui.
Di Rebecca, lì, Smith incontrò la sventura. La malattia.
Lei non lo riconobbe. Nel suo doloroso mondo di “assente”, sopravviveva, senza eloquio, senza coscienza.
Smith si domandò se anche senz’anima.
Non volle distogliere lo sguardo, benché fosse tremendo ciò che la vista gli restituiva.
Anzi, come fosse sceso in apnea nelle profondità di un mare oceanico, al fondo di quegli occhi ebbe la parvenza di intravedere, come fosse sul fondale, un’anima, forse…
Un relitto sommerso, giacente lì da tempo immemorabile, tra sabbie e cocci polistratificati.
Un’anima piena di infelicità, tra dune ed avvallamenti di materiale rimosso.
Ne fu quasi certo; ma un confuso e sommesso biascichio di fonemi uscì inaspettato dalle labbra semichiuse di lei.
“Casa”. “Casa”, lei disse… o a lui parve che lei avesse detto… o forse… lui aveva pensato che… o forse…
Trasecolò: quel corpo, che nulla ormai aveva di umano, gli si era rivelato persona.
Si chinò per sentire meglio e vide lacrime vischiose, stentatamente, scenderle per le gote: gocce di pioggia, inverosimilmente, su terra bruciata.
Fu preso da un tenero trasporto d’affetti.
Nel seguito, appena le leggi lo permisero, provvide a Lei; secondo umanità: amorevolmente.
Milano, 10 maggio 2018
Laura Zecchillo
P.S. I nomi delle persone citate nel testo sono del tutto immaginari.