40 anni dalla Legge 180 – Franco Basaglia

L’uomo alla mercè del serpente

Franco Basaglia nel suo studio, in una foto del 1979

Era il mese di maggio 1978 e frequentavo l’ultimo anno di Università, quando il professore di neuropsichiatria infantile, dr.Giorgio Moretti, ci ha parlato dell’approvazione della Legge n.180 “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori“, comunemente denominata Legge Basaglia. L’ha fatto,secondo il suo stile, con un’immagine che lo stesso Basaglia ha utilizzato durante una sua conferenza nell’anno 1967: “Una favola orientale racconta di un uomo cui strisciò in bocca, mentre dormiva, un serpente. Il serpente gli scivolò nello stomaco e vi si stabilì e di là impose all’uomo la sua volontà, così da privarlo della libertà. L’uomo era alla mercé del serpente: non apparteneva più a se stesso. Finché un mattino l’uomo sentì che il serpente se n’era andato e lui era di nuovo libero. Ma allora si accorse di non saper cosa fare della sua libertà: nel lungo periodo del dominio assoluto del serpente egli si era talmente abituato a sottomettere la sua propria volontà alla volontà di questo, i suoi propri desideri ai desideri di questo, i suoi propri impulsi agli impulsi di questo che aveva perso la capacità di desiderare, di tendere a qualcosa, di agire autonomamente. In luogo della libertà aveva trovato il vuoto, perché la sua nuova essenza acquistata nella cattività se ne era andata insieme col serpente, e a lui non restava che riconquistare a poco a poco il precedente contenuto umano della sua vita”. (1)

Il professor Moretti, commentando la favola, ci ricordava l’importanza del “contenuto umano”,sottolineando,da un lato, come gli ospedali psichiatrici non avevano rispetto di questo aspetto fondamentale delle persone e, dall’altro,come questa Legge poteva aiutare i cosidetti “matti” a recuperare il loro “contenuto umano”.

Non avrei poi mai pensato di concludere la mia esperienza lavorativa proprio in un ex-Ospedale Psichiatrico, il San Martino di Como. Inaugurato nell’anno 1882 era una “città nella citta”: al suo interno si poteva trovare un panificio, la Chiesa, il cimitero …

Al mio arrivo, nell’anno 2003, negli edifici del vecchio ospedale si trovavano gli uffici dell’ASL, una Comunità per tossicodipendenti, una scuola superiore e due Comunità Terapeutiche. Un giorno,camminando per i viali del San Martino,mi sono trovato in un piccolo boschetto di betulle.La mia attenzione è stata catturata da alcuni scritti incisi sui tronchi: erano frasi, invocazioni,richieste, preghiere, probabilmente incise dai ricoverati.

Da esse traspariva sofferenze,desideri, rabbie e anche squarci poetici.

Questa scoperta mi ha fatto molto riflettere sulle circa quarantamila donne e uomini passati nei padiglioni di questo Ospedale psichiatrico e mi ha spinto a curiosare tra i documenti degli archivi,abbandonati uno stanzone, alla mercè di chiunque. Leggendo qualche cartella clinica ho constatato che i “matti” del S. Martino non erano altro che poveri contadini,mentecatti e vagabondi, casalinghe e puerpere “prese dalla malinconia”, operai e muratori alcolizzati, emigrati meridionali o veneti rimpatriati dalla vicina Svizzera per l’insorgere di disagi vari.

All’epoca i matti si dividevano sostanzialmente,in due categorie:quelli che avevano battuto la testa da piccoli e quelli che erano nati matti per effetto dell’ereditarietà….il manicomio,più che un luogo di cura,spesso era un semplice ricettacolo di quelle che oggi chiameremmo devianza ed emarginazione” (2)

Guardando ogni giorno quel boschetto di betulle come non pensare a tutte queste persone invase dal serpente e private della loro dignità umana? Così Alda Merini ricordò, anni dopo, il “suo” manicomio, dove trascorse dieci interminabili anni: “Il manicomio era saturo di fortissimi odori. Molta gente orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o cantava canzoni sconce. Noi soli, io e la Z., sedevamo su di una pancaccia bassa, con le mani in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là”. (3)

Purtroppo, nonostante la chiusura dei manicomi,il pensiero di Basaglia riguardo la malattia mentale (era sua l’espressione “A me non interessa la malattia, ma il malato”), non sono riuscite ancora del tutto a penetrare nella psichiatria che rimane, tranne alcune eccezioni, molto clinicizzata, non riuscendo ancora a comprendere che il malato è un Soggetto e non una malattia.

Questo anniversario che ricorda la promulgazione della Legge 180 (1978-2018)viene a ricordarci che: “In psichiatria non si ha a che fare con “malattie” ma con persone che sono immerse nel dolore e nella sofferenza,e che, prima di ogni altra cosa,chiedono disperatamente di essere ascoltate e di essere accettate nella loro debolezza”(4). e, come scrisse Mario Tobino nel suo romanzo Le libere donne di Magliano: “Scrissi questo libro per dimostrare che i i matti sono creature degne d’amore, per far sì che si avesse maggiore sollecitudine per la loro vita spirituale,per la loro libertà, e tenati di richiamare l’attenzione dei sani su coloro che erano stati colpiti dalla follia”(5).

Grazie a Franco Basaglia per il suo coraggio e la sua determinazione per averci ricordato che dietro la malattia psichica c’é un essere umano che va accolto, rispettato e amato.

Giuseppe Fojeni


Bibliografia

  1. Corpo e istituzione. Considerazioni antropologiche e psicopatologiche in tema di psichiatria istituzionale, in: F.Basaglia, Scritti (a cura di F. Ongaro Basaglia), vol. I Dalla psichiatria fenomenologica all’esperienza di Gorizia, Torino, Einaudi, 1981.
  2. Gianfranco Giudice (2009), Un manicomio di confine. Storia del San Martino di Como. Editori Laterza.
  3. Alda Merini (2013), L’Altra verità. Diario di una diversa, Biblioteca Universale Rizzoli.
  4. E.Borgna (2015), Le figure dell’ansia, Feltrinelli.
  5. Mario Tobino (2001), Le libere donne di Magliano,Arnoldo Mondadori Editore, 2001.

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