Il disagio psichico ai tempi del coronavirus

Risonanze, dissonanze, consonanze ai tempi del coronavirus

Oggi, a seguito di un tam tam diffuso su whatsapp, alle 12:00 si è svolto un flash mob in tutta Italia con un lungo applauso di ringraziamento dai balconi per tutto il personale sanitario coinvolto nel fronteggiamento della pandemia del secolo.

i disegni dei bambini

Come medico psichiatra responsabile non sono meno coinvolto, insieme a tutti i miei colleghi, nell’emergenza, anche se non in un reparto di terapia intensiva o infettivologico. Lavoro, infatti, in un grande centro della Lombardia costituito da numerose comunità psichiatriche riabilitative che ospitano e assistono un totale di 350 pazienti, per una fascia di età che va dai 18 anni agli over 65. Comunità terapeutiche che si occupano in modo trasversale del disagio psichico: dai disturbi alimentari ai disturbi di personalità, alle psicosi, alla schizofrenia, alla disabilità mentale, alla psicogeriatria. Una popolazione quindi fragile, non solo a causa del disagio psichico e mentale, ma anche per le numerosi e frequenti comorbosità dei pazienti (sindrome metabolica, ipertensione, diabete, bronchite cronica ostruttiva, ecc.). Appena si è diffusa la notizia della crescita epidemica dei contagi nel lodigiano, abbiamo preso immediatamente dei provvedimenti drastici, indipendentemente dal tentennare delle disposizioni governative: sin da lunedì 24 febbraio 2020 abbiamo di fatto chiuso il nostro centro. I pazienti non possono uscire in città, tutti i permessi domiciliari sono stati sospesi e anche le visite dei parenti e conoscenti dall’esterno sono state vietate. È stata costituita una “zona filtro” per l’ingresso del personale con controlli quotidiani della temperatura corporea prima dell’accesso in servizio. Sono stati presi provvedimenti immediati anche per semplici sindromi da raffreddamento: i pazienti con tosse, raffreddore, mal di gola o febbre hanno subito indossato una mascherina da tenere per 14 giorni.

Ebbene, in questa situazione di grande disagio (tutti possiamo immaginare l’enorme limitazione delle abitudini quotidiane, anche le più semplici) la risposta dei pazienti è stata veramente grande! Dopo un momento di condivisione del disagio con noi operatori e di comprensibile paura, sono stati estremamente collaboranti. Si informano, scherzano, cercano di non pesare troppo sul lavoro che stiamo svolgendo. Si, qualche caso di “trasgressione” c’è stato, ma è subito rientrato ed è stato occasione di maturo confronto con il paziente. Una situazione ben diversa da quella a cui abbiamo assistito con sconcerto a Milano con la calca nelle stazioni dei treni per “scappare”, o i gruppi di “movida” sui navigli, l’affollamento agli impianti sciistici o comunque di tutti quei comportamenti “non-coscienti” di molte persone “normali”.

Applaudo al responsabile atteggiamento dei pazienti, perché ci mostra che la sofferenza e il disagio grave non annullano la nostra soggettualità attiva e la condivisione. È questa condivisione che mi ha mostrato la dimensione di “comunità” terapeutica nella differenza dal modello ospedaliero, in cui c’è chi è solo nel ruolo di patire (paziente) e chi è nel ruolo di agire (curare). In queste settimane ho vissuto momenti di intensa commozione nel visitare quotidianamente le comunità e nel fare le riunioni con i pazienti che ringraziavano, ponevano domande, facevano battute, ci infondevano coraggio.

Quest’esperienza mi convince ancora di più della nostra essenza intersoggettiva di esseri umani e della necessità di una cura fondata sul Soggetto.

«Intendo per Soggetto quel modo dell’uomo di relazionarsi al mondo e a sé stesso che gli consente di realizzarsi nel proprio divenire specificamente umano “e che è di questo divenire l’espressione significante”. […] È tramite il legame di continuità e unitarietà che il Soggetto costruisce la storia della propria presenza, del proprio esserci. Storia non contenutistica e oggettiva, ma storia dinamica che coincide con il senso che il Soggetto dà al suo realizzarsi nell’arco temporale della vita» (Cozzaglio, 2014, 2017).

Oggi queste parole mi risuonano ancora più concrete e reali, perché le vedo incarnate nei pazienti con cui mi relaziono. Non siamo solo individui, isolati l’uno dall’altro in una profonda e radicale solitudine; siamo Soggetti intersoggettivi, in costante relazione l’un l’altro, oltre i confini e i perimetri della nostra individualità. In fondo la pandemia ce lo mostra: il nostro comportamento influenza la diffusione del disagio. Una chiusura egoica è deleteria, sciagurata nella sua gravità, e paradossalmente va contro quello stesso individuo che l’apparente salvaguardia dell’Io vorrebbe proteggere. È necessario prendere coscienza della nostra essenza intersoggettiva se vogliamo contenere l’infezione del “virus”.

Ricordo quello che diceva Silvia Montefoschi, biologa e psicoanalista lungimirante: il virus è portatore di un’informazione genetica “estranea” che “vuole” sovvertire il nostro sistema infettandone le cellule e cambiandone così l’informazione di base, e questo avviene in un momento in cui il sistema è arroccato in posizioni che, alla lunga, diventano incompatibili con la sua stessa sopravvivenza (sistema economico predatorio, inquinamento globale, individualismo radicale). Pensiamo, in questi momenti di paura e trepidazione, agli effetti potenzialmente positivi che questa pandemia induce sul nostro comportamento: il poter pensare di “fermarsi” nell’impossibilità a pensarci “a riposo”, l’essere costretti a relativizzare gli interessi esclusivamente economici, lo stop all’inquinamento più selvaggio delle nostre città, il dover pensare necessariamente anche agli altri, il poterci sentire vicino alle persone che amiamo anche se non possiamo toccarle o baciarle. Il virus infettandoci ci costringe a “mutare” i comportamenti per noi ormai abituali e a doverci ripensare per sopravvivere.

Usciremo dalla pandemia solo recuperando la consapevolezza e la responsabilità (“abili nella risposta”) della nostra essenza intersoggettiva di persone umane.

Grazie, all’esempio dei “pazienti”!

Paolo Cozzaglio


bibliografia

  • Cozzaglio p. (2014) Psichiatria intersoggettiva. Dalla cura del soggetto al soggetto della cura, FrancoAngeli, Milano.
  • Cozzaglio p. (2017) Confini borderline. Psicoterapia analitica intersoggettiva dei disturbi di personalità, FrancoAngeli, Milano.

1 commento su “Il disagio psichico ai tempi del coronavirus”

  1. Mi colpisce molto la reazione dei pazienti delle tue Comunità Psichiatriche , proprio perché le persone che vengono considerate “malate” si stanno comportando in maniera più adeguata dei cosidetti “sani”.
    In questi giorni mi fa pensare l’atteggiamenti di amici e colleghi, che stanno reagendo a questa pandemia rivelando aspetti della loro personalità che non conoscevo: dal terrore e dal panico a una chiusura esagerata alla relazione interpersonale.
    Se la psicoterapia mi ha insegnato qualcosa è proprio nella capacità di cogliere il senso di quello che sta accadendo e soprattutto sopportare ,in modo equilibrato, il non senso, attraverso l’aiuto del simbolico.
    Spero che, come scrivi tu nell’articolo, attraverso la sofferenza e il disagio che derivano da questa esperienza che stiamo vivendo,possiamo riscoprire l’importanza dell’intersoggettività , e della responsabilità nei confronti degli altri e del cosmo in cui viviamo.
    Giuseppe

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