La psicoanalisi al tempo del Coronavirus

Risonanze, dissonanze, consonanze ai tempi del coronavirus

La pandemia da Covid-19, senza precedenti almeno nell’ultimo secolo, ha imposto una radicale revisione del nostro sistema di vita. Ove questo non avviene – lo percepiamo ad esempio nel modo obsoleto in cui gli stati e la finanza concepiscono l’economia – il sistema stesso rischia di divenire incompatibile con la vita futura.

La psicoanalisi è esente da questo processo e da questa sfida? Direi proprio di no, anzi si trova in una grossa difficoltà teorica e metodologica. L’avvio delle terapie via Skype – accolto immediatamente da alcuni e avversato da altri – costituisce l’occasione di un grande ripensamento intrinseco e non solamente un escamotage tecnico momentaneo.

In un articolo del 1 aprile su Il Sole 24 Ore, Vittorio Lingiardi e Guido Giovanardi si interrogano: «Oggi, di fronte alla necessità di comunicare senza incontrarsi, anche gli psicoterapeuti più resistenti si sono adattati». Esaminano i risvolti sulla relazione analitica e l’intimità delle terapie via Skype e concludono citando il “terzo” intersoggettivo: «L’importante è mantenere la fiducia nella relazione terapeutica cogliendo il valore di una terapia che, sapendo adattarsi alle richieste della realtà, sa umanizzarsi. Carl Gustav Jung ha descritto lo spazio condiviso da paziente e analista come abitato da un “corpo sottile”, un’entità organico-spirituale che favorisce la comunicazione inconscia; uno spazio intermedio dove l’immaginazione agisce e trasforma. Questa dimensione, per certi versi simile al concetto elaborato dallo psicoanalista statunitense Thomas Ogden di “terzo analitico” (per cui analista e analizzando creano insieme una dimensione intersoggettiva che permette a entrambi di trasformarsi), esiste in ogni caso. È così corporea, da manifestarsi anche a distanza. Così sottile da attraversare gli schermi».

Da sempre, come CEPEI, sosteniamo la “corporeità” dell’intersoggettività; è la posizione di coscienza e consapevolezza co-riflessiva che ci caratterizza in qualità di Soggetti intersoggettivi (e non solo individuali) e ci fa essere partecipi di tutto ciò che viviamo nel mondo, in modo unitario e non parcellizzato. Jessica Benjamin definisce l’intersoggettività «in termini di una relazione di riconoscimento reciproco – una relazione in cui ogni persona fa esperienza dell’altro “in quanto soggetto”, un’altra mente “con cui si può sentire” sebbene abbia un centro di sentimenti e percezioni distinto e separato» (pg. 32). Una mente e un corpo distinti e separati che si riconoscono uno. Questo, come ci ha ben mostrato Silvia Montefoschi, non vale solo tra soggetti umani, ma si applica anche al rapporto tra il Soggetto e la realtà tutta – interiore ed esteriore – che viviamo e di cui facciamo esperienza. In questo senso – e il discorso illumina la nostra riflessione sulla psicoanalisi – anche il Coronavirus non è un semplice nemico da combattere che rischia di portarci in una guerra fratricida; è anch’esso portatore di una informazione “diversa” che, se letta intersoggettivamente mediante la funzione riflessiva, ci può permettere di ri-pensare un sistema che abbiamo strutturato in modo rigido e ripetitivo e che non ci consente più di ritrovarci Soggetti. Sempre la Benjamin scrive: «Diventare parte del problema equivale a diventare parte della soluzione» (pg. 54).

In altro luogo, riflettendo sui confini del setting per la psicologia analitica intersoggettiva, mi chiedevo quale fosse il suo scopo. Il setting deve garantire: 1) la possibilità di svolgere un lavoro analitico, cioè che si crei un pensiero analitico favorente la funzione riflessiva; 2) la possibilità di far esperienza della continuità del rapporto analitico tra terapeuta e paziente; 3) la possibilità per entrambi di esprimersi liberamente e sinceramente, contenendo però le esperienze emotive intense e caotiche e non permettendo che queste possano minare la relazione terapeutica. Da questo punto di vista, il setting è un dispositivo tecnico atto a che il metodo psicoanalitico possa svolgersi nella relazione tra paziente e analista. Ma qual è il metodo psicoanalitico nella sua essenza?

La psicoanalisi inizia con l’atto di riflessione del soggetto sui propri vissuti, interiori ed esteriori. La possibilità di co-riflessione nella relazione tra paziente e analista è ciò che il setting offre; è questo tipo di relazione che può stimolare la funzione riflessiva, che permette ai Soggetti in gioco (paziente e analista) di prendere distanza dall’identificazione rigida nelle modalità operative abituali del proprio Io e viversi come Soggetti riflessivi. La psicoanalisi è al contempo una terapia e un modo per ampliare la conoscenza di sé; terapia e conoscenza coincidono e confluiscono nel metodo psicoanalitico che ha come finalità il divenire Soggetto “agente” e non più “paziente”. Soggetto, che quando diventa autocosciente della propria agency, può riconoscere nell’altro un Soggetto in dialogo (simile anche se diverso) e pertanto si rende consapevole della sua essenza di Soggetto intersoggettivo. Il setting è un dispositivo che deve garantire questa processualità. L’intersoggettività consapevole è il fine del metodo psicoanalitico.

Se questo è vero, dobbiamo considerare almeno due conseguenze della terapia psicoanalitica. La prima è quella di togliere il Soggetto dalla sua radicale solitudine che patisce e aprirlo alla comunione responsabile col mondo. Come ci mostra la pandemia di Covid-19, l’arroccamento individualistico, sia personale sia collettivo (gli stati che faticano a sentirsi parte dell’Unione Europea, del mondo, e che non imparano o cooperano gli uni con gli altri), porta solo a ripetere gli errori, al dilagare della malattia, a non trovare sistemi alternativi creativi. La psicoanalisi deve essere stimolo a “pensare insieme”, a creare insieme e non può ridursi ad essere “sostegno psicologico” per un Io malato. La seconda è che la psicoanalisi deve esplicare il suo potenziale “sovversivo” – come dice Nancy McWilliams – e trasformare radicalmente la struttura di un sistema che si è reso incompatibile con la vita; questo sia che si tratti dell’egoriferimento del soggetto individuale, sia degli egoismi nazionali o sovra-nazionali. La psicoanalisi deve perciò “sporcarsi le mani” con la vita concreta e non essere uno sterile fenomeno culturale per pochi addetti che vivono nella società del benessere. Un collega psicoanalista scriveva qualche giorno fa in chat: «In questi giorni in ospedale c’è un cinema, anche se noi non serviamo a niente, ma veramente a niente, e rischiamo di far ridere con le nostre pratiche di rilassamento». Comprendo profondamente il disorientamento del collega e di quanti si ritrovano a proporre le loro pratiche abituali in uno stato di emergenza. Così succede quando una tecnica rischia di sovrapporsi al metodo. Un altro esempio: è chiaro che in questa situazione ne usciremo quasi tutti con sintomi da “disturbo post-traumatico”. Cosa succederà allora? Che gli “psi” proporranno a tappeto l’EMDR (in parte lo stanno già facendo) a sostegno di tutti i traumatizzati. E così potrei fare altri esempi, infiniti esempi di tecniche che hanno sostituito il metodo e la finalità di ritrovarci come Soggetti. psicoanalisi compresa se si arrocca in un setting prestabilito e poco flessibile.

La sfida del Coronavirus è però salutare nel momento in cui obbliga la psicoanalisi a rivedere i propri fondamenti teorici e a comprendere come sia reale il rischio di sovrapposizione tra tecnica, metodo e finalità. Miguel Benasayag è psicoanalista e filosofo argentino che ha lottato nel periodo della dittatura militare e patito il carcere e la tortura. Il suo ultimo saggio Funzionare o esistere? è una proposta di “psicoanalisi sovversiva” che deve portare il Soggetto ad esistere e a considerare le avversità come una domanda: «Il fatto di funzionare bene può essere molto rassicurante per una persona, ma anche, sfortunatamente,  sempre più colleghi rispondono senza indugi a quella richiesta. […] Si deve proporre un lavoro, in certa misura, sovversivo rispetto agli ideali sociali» (pg. 40). Per quanto riguarda la psicoanalisi, il necessario (e doveroso, a parer mio) cambio di setting, ci dà l’occasione di entrare nella vita concreta insieme al paziente. Dobbiamo tener conto delle esigenze irrefutabili della pandemia, ma anche della comunicazione tramite le nuove tecnologie (lo avevamo già fatto alla chetichella con le mail, i messaggi e i nostri siti web) – mai come ora al servizio della comunicazione – e delle priorità che questo tempo di “chiusura” ci impone. Tramite gli schermi dei tablet e dei computer, ambienti di vita diversi entrano più che mai in comunicazione, quello del paziente ma anche quello dell’analista. Questo repentino cambio di setting potrebbe essere letto in modo classico come una violazione del setting, un enactment o una self-disclosure da parte dell’analista. Benjamin però ci ammonisce in tempi non sospetti: «Gran parte di ciò che viene frainteso come disclosure è più da considerare propriamente in termini della sua funzione, ossia riconoscere il contributo dell’analista al processo intersoggettivo» (pg. 58). L’intersoggettività ci impone di condividere in piena responsabilità il tempo del Coronavirus. È etico – lo dico provocatoriamente – continuare a vedere il paziente nel nostro studio anche se è “permesso” dalle direttive? Come contrastiamo insieme a lui il rischio di contagio? Mettiamo entrambi le mascherine sul volto? Accettiamo e compartecipiamo dell’isolamento forzoso o ci diamo reciprocamente un pretesto per uscire di casa, come la passeggiata col cane o fare la chilometrica coda al supermercato?

Glen Gabbard ha proposto la distinzione tra “attraversamento dei confini” e “violazioni dei confini”: il primo segnerebbe un momento evolutivo della terapia, il secondo recherebbe un danno al paziente. Potremmo allora vedere il setting online come un attraversamento e il persistere a vedere il paziente di persona come una violazione? Sarebbe paradossale. Pensiamo anche al passaggio dal lettino al vis-a-vis forzato. Cambia la terapia psicoanalitica? È meno “profonda” come spesso si sente declamare? Dobbiamo ricordarci che il passaggio dal lettino al vis-a-vis era presente già ai tempi di Freud, Jung, Adler e nessuno dei nostri grandi ha mai messo in dubbio la profondità del metodo psicoanalitico in base al setting (termine che non era ancora usato).

Il tempo del Coronavirus ci costringerà a riflettere su come abbiamo fatto coincidere le nostre tecniche con l’essenza del metodo e della teoria e a considerare la relazione a fondamento della psicoanalisi. La “psicoanalisi della relazione” e la “psicologia analitica intersoggettiva” sono verosimilmente molto più di una corrente psicoanalitica accanto ad altre.

Paolo Cozzaglio


bibliografia

  • Benasayag M. (2018) Funzionare o esistere?, Vita e Pensiero, Milano, 2019.
  • Benjamin J. (2019) Il riconoscimento reciproco. L’intersoggettività e il Terzo, Cortina, Milano.
  • Cozzaglio P. (2017) Confini borderline. Psicoterapia analitica intersoggettiva dei disturbi di personalità, FrancoAngeli, Milano.
  • Gabbard G. O. (1996), Amore e odio nel setting analitico, Astrolabio Ubaldini, Roma, 2003.
  • Lingiardi V., Giovanardi G., Terapie e terapeuti on-line in Il Sole 24 ore, 1 aprile 2020.

1 commento su “La psicoanalisi al tempo del Coronavirus”

  1. Grazie Paolo, lo trovo un ottimo articolo: un vivido esempio di come ogni evento nella nostra vita possa essere da noi vissuto come minaccioso per le nostre abitudini identitarie, oppure come una domanda che ci interroga seriamente, e che, trasformandoci un pò, ci permette proprio nel cambiamento che richiede di continuare a sentirci Soggetti (quindi in divenire), e al contempo di ritrovarci insieme intersoggettivamente proprio nella condivisione della nuova riflessione che si genera in ciascuno.

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