Suggestioni sul libro di Murray Stein, Elena Caramazza “Temporalità, vergogna e il problema del male” Moretti & Vitali, Bergamo, 2019.
In questo “tempo di mezzo” in cui viviamo, centrale nella vita dell’uomo appare il problema del bene e del male. Anche in questo caso possiamo pensare che l’armonia si ottenga attraverso il suono armonizzato di tasti bianchi e neri.
Murray Stein ed Elena Caramazza mettono a confronto due narrazioni della creazione: la narrazione biblica e la narrazione del mito indiano di Prajapati. Come viene sottolineato da Clementina Pavoni nell’Introduzione, nel mito biblico il male è riferito alla colpa di disobbedienza di Adamo ed Eva all’interdetto di attingere all’albero della conoscenza; nel mito indiano è il dio che, creando il mondo per sfuggire alla solitudine, crea anche le tenebre.
In realtà, anche nel mito biblico il male è antecedente alla comparsa degli esseri umani. Leggiamo l’inizio del libro del Genesi:
In principio Dio creò i cieli e la terra. La terra era informe e vuota e le tenebre coprivano l’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque (Genesi, 1,1-2).
Fin dall’inizio lo Spirito di Dio, il soffio che dà inizio alla creazione, è contrapposto alle tenebre. La prima azione è la creazione della luce – non quella degli astri che compaiono in seguito – ma la creazione di un principio di vita, e quindi di bene, che si contrappone al caos precedente. Anche se vogliamo ritenere che con il termine “tenebre” l’autore abbia dato concretezza al nulla, un concetto astratto lontano dal pensiero semitico, è tuttavia interessante notare come nel testo Bene e Male siano indissolubilmente legati. L’opera della creazione procede con la separazione della luce dalle tenebre, delle acque sopra il firmamento da quelle sotto il firmamento, della terra dal mare. La luce divina è un principio ordinatore, che separa e definisce, contrapposto a caos e assenza di vita. La creazione consiste, quindi, nel dare ordine, attraverso una separazione che introduce nel creato la relazione tra elementi opposti, tra l’Essere e il Nulla, la luce e l’oscurità, la vita e il vuoto dell’abisso.
Non vogliamo arrogarci la capacità di entrare in una esegesi biblica, ma semplicemente notare quanto sia comune pensare al Bene sempre in relazione al Male, come se intuitivamente fossero concetti correlati, ognuno definito in relazione all’altro. Del resto il problema del male costituisce una questione insoluta, un paradosso difficile da conciliare con l’immagine di un Dio bontà assoluta cui le religioni più tarde aspirano.
Nelle religioni più antiche la contrapposizione tra bene e male è vista come lotta tra principi antagonisti di uguale potere. Nel poema mesopotamico Enuma elish, la creazione derivava da una lotta tra il dio del nulla o dell’abisso e il dio dell’essere. Il Mazdeismo, fondato sugli insegnamenti di Zarathustra (VI sec. a C.), per secoli la religione di tutta l’Asia centrale, pur essendo una religione monoteista, si fonda sull’esistenza di due principi primordiali contrapposti, il Bene e li Male, identificati con la Verità e la Menzogna: ai seguaci del Bene toccherà la Vita e ai seguaci del Male la Non-Vita. Nei rotoli del Mar Morto della Comunità degli Esseni (II sec. a.C.) compare lo spirito del male, Belial, che ha poteri assoluti e divini, anche se anche lui creato da Dio. Il Manicheismo (III sec. d.C.), che come movimento religioso ebbe una grande diffusione e una lunga durata, proponeva un dualismo radicale in cui il mondo era il teatro di una lotta tra il bene, rappresentato dalla luce e dallo spirito, e il male, espresso dalle tenebre e dalla materia. Al di fuori di una prospettiva religiosa, persino Socrate nel Teeteto platonico afferma che “il male esiste necessariamente, essendo necessario un contrario al Bene”.
Con il Cristianesimo cambia la prospettiva: Dio è il bene assoluto e la lotta del bene contro il male si svolge nella storia poiché riguarda solo l’uomo, anche se con il provvidenziale e imperscrutabile intervento divino in favore dell’umanità. Tutte le religioni abramitiche mantengono la concezione di un Dio totalmente buono. Anche per l’Islam Allah è il Bene e Satana è il “sussurratore” che induce pensieri malvagi o impuri nel cuore degli uomini con l’inevitabile corollario che chi crede è buono e chi non crede è un malvagio. Tutto ciò, a livello umano, favorisce un atteggiamento di proiezione all’esterno del male, che rimane una realtà misteriosa che può essere accettata solo con l’abbandono alla fede in una dimensione di Bene assoluto, la cui realtà è troppo al di là della razionalità umana per essere pienamente compresa.
Murray Stein ed Elena Caramazza, nel loro stimolante scambio epistolare, nel proseguire la riflessione sulla dimensione umana della temporalità, finiscono inevitabilmente con il toccare il problema del rapporto tra bene e male. Ovviamente prendono le mosse dal pensiero junghiano.
Sappiamo che Jung e Neumann, anche a causa della durezza dei tempi in cui vissero, si sono occupati a lungo del problema del male approfondendone gli aspetti: Che cos’è? Da dove deriva? Come riguarda l’essere umano? Lasciando inizialmente da parte la riflessione metafisica, Jung affronta il problema dal punto di vista psicologico, legando la spiegazione del male alla stessa natura umana. La realtà psichica non è statica e definita, ma processuale; si esprime nella tensione dialettica tra opposti complementari che si definiscono l’uno in relazione all’altro, quindi mai ipostatizzabili e neppure comprensibili se non nella loro relazione (Jung, 1947/1954, vol. 8). Essendo stato delimitato il campo di riflessione, non è necessaria una spiegazione ontologica del male, la cui esistenza non può essere oggettivata in una divinità malvagia, ma neppure giustificata come contraddizione o privazione della totale bontà di essere staticamente buono.
E’ questa una visione dialettica di origine hegeliana anche se ne differisce profondamente poiché in Hegel gli opposti, che sono contraddittori e fondamentalmente estranei, pervengono alla fine del processo dialettico, ad una sintesi che li unifica non solo trasformandoli ma annullandoli (Trevi, 1975).In Jung al contrario il processo di unificazione non annulla gli opposti, ma li complessifica conferendo una pienezza di significato che deriva dall’aver accolto ciò che era fino a quel momento escluso dalla coscienza. Non si tratta solo di una polarità tra conscio e inconscio, ma tra soggetto e oggetto, che esprime “l’esperienza contraddittoria che l’uomo fa di se stesso, soggetto libero e attivo sul mondo e oggetto passivo condizionato dal mondo e, ancora, soggetto della conoscenza e oggetto a un tempo della medesima; l’uomo è colui che conosce se stesso e il se stesso che egli conosce. Questa antinomia è quindi una realtà dialettica, in quanto sta a fondamento del processo conoscitivo dell’uomo che segna il divenire del mondo umano” (Montefoschi, 1985, vol. 1, p. 600).
A livello personale il male è costituito dall’Ombra, l’aspetto inconscio della nostra personalità che è necessario integrare e non negare o proiettare, al fine di raggiungere un equilibrio per quanto continuamente rimesso in discussione dalla vita. Siamo, infatti, chiamati ad un processo continuo di ampliamento e realizzazione sempre più piena di noi stessi. La proiezione è una modalità di funzionamento costitutiva dell’essere umano; svolge un ruolo fondamentale, insieme con l’introiezione, nella genesi della distinzione del bambino tra soggetto e oggetto. (Laplanche Pontalis, 1967, p. 429). Anche Freud afferma: «La proiezione (…) non è stata creata per la difesa, essa si verifica anche là dove non vi sono conflitti» (Freud, 1912-13, p. 71). E’ riduttivo pensarla solo come un meccanismo di difesa, come spesso avviene. La distinzione tra tesi e antitesi, cioè tra soggetto e oggetto, in Hegel si fonda sulla proiezione. Si rifiuta nell’altro ciò che viene avvertito come alieno, sia esso negativo o positivo, perché non riconosciuto, o non ancora riconosciuto, in sé stessi (Jung, 1921, vol. 6, p. 473).
Abbandonando l’ottica unicamente difensiva, la proiezione può essere vista come un principio di trasformazione interna della natura stessa della pulsione (Ribola, 2013, p. 29). Attraverso questo meccanismo, l’Io prende progressivamente contatto con la sua Ombra che non è solo ciò che è percepito come negativo per il mantenimento identitario dell’immagine di sé, ma anche tutto ciò che di positivo non può ancora darsi alla consapevolezza. La proiezione diviene così “un processo di progressivo svelamento e differenziazione di alcune informazioni che passano, in entrambe le direzioni, fra psiche e mondo, le quali producono forme sempre nuove di conoscenza e di relazione. Gli attori di questo processo sono un Soggetto e un Oggetto in se stessi inconoscibili e trascendentali” (ib. p. 33). Il ritiro e il superamento della proiezione, che non può essere esente da turbamento e sofferenza, determina una situazione nuova dell’Io, trasformativa sia a livello conoscitivo che ontologico, una vera creazione.
Ma, nella visione junghiana, l’opera individuale psicologica di integrazione dell’Ombra, anche se basilare e propulsiva per la costituzione dello psichico nella sua dimensione riflessiva, non è sufficiente. Come afferma Caramazza l’azione individuale deve “innescare un processo di trasformazione che si estende all’interezza del sé e che, quindi, investe anche il nostro substrato biologico e archetipico” (Stein, Caramazza, 2019, p. 109). Jung affronta il divenire dell’uomo, il rapporto Io/Sé in tutta la sua opera (ad esempio cfr. Tipi psicologici, 1921, vol. 6) ma lo fa in particolare ne Il Libro rosso, Liber Novus, pubblicato a cura di S. Shamdasani nel 2009.
Per quel che riguarda la nostra vita di esseri umani, in cammino verso una individuazione sempre più piena che non può che coincidere con la comunione con l’altro, allo scopo di conseguire questa finalità che ci è propria, il male va accolto con pienezza. Poiché è il nostro male, va individuato, anche se con inevitabile sofferenza, assimilato fino a divenire causa di guarigione in un processo di trasformazione reale che non lo neghi ma neppure edulcori. Quindi, l’ampliamento di conoscenza, suscitato dal processo di integrazione tra il sentire e l’idea, coincide con una complessificazione dell’essere che è la sua vocazione esistenziale (Jung, 1921, vol. 6, p. 455; p. 185).
Il percorso di una simile trasformazione passa attraverso il simbolo, inteso non come “imago della libido pulsionale, ma soluzione sintetica di aspetti altrimenti inconciliabili dell’attività psichica” (Ribola, 2013, p. 31), espressione della funzione con cui il Soggetto opera su sé stesso, nella continua creazione di sé e della realtà. Il termine tedesco, Sinnbild, ha nel suo etimo una pregnanza semantica. E’ immagine (Bild) di un significato (Sinn): un’immagine che pertiene all’inconscio e un significato che la coscienza costruisce. L’irrazionale e il razionale si uniscono nel simbolo che, attingendo all’inconscio archetipico, sollecita la coscienza ad accedere a significati nuovi e più ampi, che trascendono il già noto. Il simbolo congiunge ciò che già esiste, strutturato nella coscienza, con qualsiasi altra determinazione possibile. Come suggerisce Jolande Jacobi “… il simbolo è adattissimo a render conto dei processi che si svolgono nella totalità della psiche e a esprimere i più intricati e contrastanti stati di fatto psichici oltre che ad agire su di essi… Un vero simbolo non può mai essere completamente spiegato. Della sua parte razionale ci può dare la chiave la coscienza, ma i suoi elementi irrazionali possiamo solo “sentirli” (Jacobi, 1948, pp. 123-124).
In questa visione, il male coincide con la prigionia dell’Io in orizzonti ristretti e nell’irrigidimento in immagini identitarie conosciute sia di sé sia del mondo 1). La sofferenza, che lo stato di limitazione dell’Io provoca, può essere avvertita consapevolmente come sentimento di insoddisfazione e di angoscia oppure può emergere, in modo più indiretto, con un sintomo sia fisico sia psichico. Il cammino di realizzazione di sé del singolo e dell’umanità ha, quindi, inevitabilmente una connotazione morale. Da “l’essere per sé” è inevitabile spostarsi a “l’essere per l’altro” in ascolto e in dialogo (Bonhoeffer, 2002). Il male, da polo negativo della realtà psichica che sgomenta e annichilisce, in questa visione dialettica di trasformazione, a causa dello squilibrio che suscita, acquista la positività di propulsore all’integrazione e al cambiamento.
Il compito che ci spetta e che appare oggi veramente urgente è quello di trasformare il senso del limite, che la realtà del secolo attuale ancor più del precedente induce in noi, nella certezza del suo possibile, progressivo, anche se lento superamento. Nell’essere umano il limite non è il segno negativo di una carenza, ma espressione di una caratteristica costitutiva: la capacità di assumere la natura nel logos.
Vorremmo concludere con un breve lirica di Marina Cvetaeva (1921), che ci sembra si presti bene ad esprimere il senso del nostro cammino.
C’è una certa ora ̶ come un peso buttato via;
quando in noi l’arroganza è domata.
Un’ora di apprendistato, in ogni esistenza
trionfalmente ineluttabile.
(…)
Oh, quell’ora, che all’impresa come una Voce
Ci solleva dall’arbitrio dei giorni!
Oh, quell’ora, in cui, come spiga matura,
ci pieghiamo sotto il nostro peso.
(…)
Ora dell’apprendistato! Ma un’altra luce
ci si fa vedere e conoscere ̶ appena accesa l’aurora.
Te benedetta, ora suprema della solitudine
che passo passo la segui!
Mimma Cutrale e Maria Luisa Tricoli
NOTA 1. Anche la teologia cristiana, almeno una parte di essa, ha accolto questa visione. Troviamo in Carlo Molari che l’essere umano non può che essere “verità provvisoria e successiva” e che quindi il male “è l’espressione della temporalità del creato” (C. Molari Triduo Pasquale, Edizioni Appunti di Viaggio, 2019, p. 35).
bibliografia
- Bonhoeffer D. Resistenza e resa: lettere e scritti dal carcere. Queriniana, Brescia, 2002.
- Marina I. Cvetaeva (1921) Poesie. Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2016.
- Freud S. (1912) Dinamica della traslazione, OFS, vol. VI, Boringhieri, Torino, 1976.
- Jacobi J. (1948) La psicologia di C. G. Jung. Trad. It., Bollati Boringhieri, Torino, 1965.
- Jung C. G. (1921) Tipi psicologici. Trad. It., vol. 6, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1969.
- Jung C. G. (1947/1954) Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche. Trad. It., vol. 8, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1976.
- Jung C. G. Il Libro rosso, Liber Novus. S. Shamdasani (a cura di), trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2009.
- Laplanche J, Pontalis JB. (1967) Enciclopedia della psicoanalisi. Trad. It., Editori Laterza, Roma-Bari, 1981.
- Montefoschi S. (1985) Il divenire nel pensiero di Jung in Opere,vol. 1, Zephyro Edizioni, Milano, 2004.
- Ribola D. (2013) Quattro saggi sulla proiezione. La biblioteca di Vivarium, Milano.
- Trevi M. (1975)Una polarità implicita nel pensiero di Jung. Riv. Psicologia Analitica, n. 1