Roma, 10 maggio 2022
In questo scritto l’autrice narra sia le spinte propulsive sia le resistenze interiori che si incontrano a “metà” del percorso analitico.
Non è facile raccontare con le parole ciò che sto vivendo da quando ho intrapreso il viaggio dentro me stessa.
Precisamente da quando ho iniziato a prendere coscienza delle emozioni che compongono la mia persona.
È una posizione nuova, guardarsi da fuori.
Le sensazioni che mi avvolgono sono diverse, a volte contrastanti. Ma ora riesco loro a dare un nome. Mi sembra di aver meno paura.
Il cammino spinge il mio sguardo verso l’interno, allontanandolo dalla superficie.
Si è creato uno spazio tra me e la percezione della realtà.
E questo spazio è una tregua.
In questo spazio respiro.
Da questo spazio mi guardo.
In questo spazio le mie emozioni perdono potenza, rallentano, mi consentono di osservarle da vicino senza venirne turbata.
Le posso accarezzare senza esserne travolta.
Portano tutte la stessa origine, anche se hanno diverse destinazioni.
Come una valanga si nutrono di detriti che raccolgono durante il loro cammino. Attraversano la mia persona come un fiume, che accogliendo le acque piovane, corre impetuoso verso il mare.
Questo spazio frena la loro corsa, ed io le posso guardare.
Ma non sono capace di gioire di questa opportunità. Aleggia in me un sentimento di “nostalgia”. Quasi sentissi la mancanza di quella continua tensione, di quello stato di allerta per ogni stimolo.
Questo spazio mi sembra un vuoto, poiché non c’è azione.
Sarei tentata di desistere, ma resto, e non solo per curiosità, ma anche per una forma di onestà.
In realtà, questo spazio mi offre il tempo.
S’impone tra l’emozione e l’azione, costringendomi a sentire, a sentirmi!
Ho sempre avuto paura del tempo, perché quello che sento non mi piace. Ed ho sempre assecondato l’esigenza di divorarlo il tempo, rendendo la risposta allo stimolo un automatismo, così da non sentire.
In questo spazio ho il tempo. Anche per avere paura. Anche per sentire il desiderio di fuggire.
Questo spazio mi fa scegliere.
E in questo spazio si consumano le mie tensioni. Si trasforma in un palcoscenico sul quale recito i miei drammi, al riparo da occhi indiscreti.
Uno spazio dentro me stessa che si fa luogo.
Un luogo dove ho il tempo per spogliare le mie esperienze degli orpelli e dei mascheramenti cercando di privarle del potere che hanno su di me.
È un esercizio di disciplina abitare questo luogo, e anche di isolamento.
Sottraggo spazio alla vita reale per sperimentare questo spazio interiore. Non riesco a vivere in due luoghi contemporaneamente.
È anche una forma di protezione: sento che non sarei in grado di fronteggiare le emozioni se mi esponessi a tanti stimoli.
Mi sento diversa, pur essendo sempre io.
Le risposte verso l’esterno sembrano immutate, ma quando dico sì e invece sento no, una sensazione in quello spazio/luogo dentro di me, reclama di essere ascoltata, e reclama esser chiamata per nome: “disagio”.
E la sensazione di disagio la posso identificare in molti dei miei comportamenti verso gli altri.
Disagio, quando in uno scambio verbale mi sento obbligata a parlare più di quanto occorre, per riempire un vuoto o, ancora peggio, per assecondare il dovere di giustificarmi con il mio interlocutore.
Disagio, quando resto avvinghiata nei dialoghi esauriti.
Disagio quello che provo quando lascio che alcune persone si insinuino del mio spazio personale.
Disagio, quando mi vedo costretta ad essere fedele all’immagine che gli altri hanno di me, per paura di deluderli.
E disagio lo provo nella paura di non riconoscermi. L’immagine mentale di me stessa, così come l’ho conosciuta fino ad oggi, mi è di conforto, e mi accorgo di opporre resistenza ai tentativi di modifica.
In quello spazio ritrovato lotto anche contro me stessa, perché ho paura di una paura sconosciuta e meno paura di una paura antica conosciuta. Mi sembra di non riuscire a trovare nuovi orizzonti perché non mi sono mai immaginata in orizzonti diversi dalle pareti della vita vissuta fino ad oggi.
Quelle pareti di me stessa, nel soffocarmi mi hanno dato sicurezza e protezione.
Ho imparato a trasformare il mio muto grido soffocato in un suono consolatorio.
Ma quella sensazione di disagio ha trovato la voce. E non mi è possibile ignorarla.
Roberta Penna