Perché Lucrezio? È un poeta fuori dal coro, isolato, dal latino difficile e arcaicizzante, ricordato a scuola solo per l’adesione all’epicureismo e alla descrizione drammatica della peste di Atene nel VI libro del suo «De rerum natura» (versione di Milo De Angelis, Mondadori 2022).
Perciò fu stigmatizzato sia nell’antichità che nell’era cristiana fino ai giorni nostri.
Eppure … se si legge la sua opera evitando il più possibile pregiudizi e luoghi comuni, si scopre qualcosa di nuovo e di inaspettato.
Certamente Lucrezio ha una visione dell’uomo “conservatrice” e un po’ misogina (non è tenero con le arti di seduzione femminile libro IV parte finale). Ma quando spiega la sua visione del mondo e tenta di aprire gli occhi agli uomini cercando di superare l’angoscia e la paura della morte, di cui tutti noi, consciamente o no, siamo vittime, ci si accorge di quanto sia moderno e quanto parli ancora al nostro profondo.
Mi si dirà che altri pensatori e poeti sono altrettanto interessanti e magari anche di più. Ne convengo, è una questione di scelte, ma soprattutto di … incontri.
È quello che mi è accaduto. Mi ci sono imbattuta quasi per caso e ne sono rimasta colpita, non solo per certe intuizioni sia di carattere fisico che psicologico, ma soprattutto per come Lucrezio ci trasmette le sue idee.
È prima di tutto un poeta, e come tale il suo linguaggio è particolare, comunica attraverso immagini potenti, che trasmettono in modo immediato il suo pensiero ed esprimono qualcosa di “archetipico” direi, se il termine non fosse anacronistico. Lo definirei un poeta immaginifico e talvolta quasi onirico.
Non intendo certo fare un’analisi o una recensione letteraria o filosofica. Ci sono già molti testi di studiosi più dotti e preparati di me. Desidero solo esprimere alcune riflessioni personali che l’opera di Lucrezio mi ha ispirato.
Ma cerchiamo di procedere per ordine.
Fondamentalmente che cosa ci dice Lucrezio?
L’uomo è terrorizzato dalla morte, per questo da un lato è soggiogato da false credenze e superstizioni, dall’altro come compensazione o illusione, ricerca avidamente potere e ricchezze senza farsi scrupolo di uccidere e sopraffare, scambiando il desiderio del possesso per l’essenza della realtà (mi richiama un testo famoso di Fromm “avere o essere”).
L’unico modo per sottrarsi a questa insensatezza è la conoscenza del mondo e della natura dell’anima e quindi raggiungere la padronanza di sé.
Fin dal I libro, tra le molte, troviamo una frase significativa: (vv145 e ssg) “per dissipare questo terrore, questa notte dell’anima (animi tenebras ) non bastano i raggi del sole” …. o (III,vv 1045 e ssg) “Ti sembra così ingiusto morire? Ma la tua vita è morta già adesso … tu che sprechi nel sonno la maggior parte del tuo tempo e dormi anche quando sei sveglio … tu che non capisci nemmeno qual è il tuo vero male … azzannato dall’ansia, tu che ondeggi nella tua mente smarrita” … o (III, vv1065 e ssg) “Così ciascuno tenta di fuggire da se stesso, ma non può farlo” … o all’inizio del II libro “gli uomini si sforzano in continuazione di arricchirsi in modo smisurato … Ma la natura certo non soffre se le nostre case non risplendono d’oro e d’argento … ed ecco che tu stai guardando le tue legioni impetuose che sfilano sul campo di battaglia … speri davvero che la paura della morte abbandoni il tuo cuore?”
E così via. Ma bastano già queste poche citazioni per farmi pensare all’uomo moderno, alle sue alienazioni, alla sua depressione, alla sua solitudine e a ciò che con approssimazione definirei un embrionale concetto di “pulsione di morte”.
Ed ecco un’altra potente immagine: l’uomo non sapendo che cosa vuole, sopraffatto, continua a cambiare luoghi, ma subito se ne stanca. Così (III,vv 1060 e ssg): ”Si lancia fuori dal suo grande palazzo, stanco di starsene a casa, invaso dalla noia, ma fuori non trova nulla di meglio. Così decide di far ritorno spronando furioso i suoi cavalli a rotta di collo come se fosse scoppiato un incendio …. Appena ha varcato la soglia, ricomincia a sbadigliare … Per poi alzarsi in fretta …”.
E che cos’è la nostra attuale società, incapace di fermarsi un attimo a pensare, priva totalmente di scrupoli, sempre in continuo movimento, se non questo?
Là dove il profitto domina le azioni dell’uomo, dove bisogna prendere sempre di più e darsi al consumismo più sfrenato . Così non si deve riflettere e soprattutto non si deve mai parlare della morte, la vita deve essere “tirata per i capelli” anche quando razionalmente e moralmente non ha più senso.
Tutto ciò va solo ad accrescere l’angoscia, l’insoddisfazione e il bisogno di droghe, alcool e psicofarmaci, solo per fare un esempio.
Lucrezio ci dice che la paura della morte è qualcosa che in realtà non esiste, in quanto, quando il corpo cessa di vivere, anche l’anima, che il poeta identifica con il pensiero e una forma di “sistema nervoso”, muore. Cessano sensazioni, coscienza, tutto.
(III, vv830 e ssg) “Nil igitur mors est ad nos – la morte dunque non è nulla per noi, se la natura dell’anima risulta mortale” e ancora “non può certo diventare infelice chi non esiste più e non c’è differenza per lui tra l’essere e il non essere nato”.
“come bambini in mezzo alle tenebre che si spaventano e cominciano a tremare per un nonnulla, anche noi in piena luce abbiamo paura di qualcosa che in realtà non esiste”.
(III, vv900 e ssg) “tutti questi beni perduti non lasceranno nemmeno l’ombra di un rimpianto; se avessimo coscienza di questa verità indiscutibile … potremmo liberarci di una paura angosciosa”.
Invece gli uomini sopraffatti dalle sventure preferiscono darsi alla religione o meglio alla superstizione. Ci si affida a qualcosa di esterno, di “fuori dal se” illudendosi di risolvere i propri problemi.
È nelle difficoltà che si vede chi è veramente una persona: (III, vv 53 e ssg) “Solo allora sgorga dal profondo del cuore la sua voce più autentica, cade la maschera, rimane l’essenza (eripitur persona, manet res)”.
Non suonano familiari queste parole?
Qui Lucrezio diventa veramente “feroce”. Fin dal primo libro ( vv 82 e ssg) “è stata la religione ben più spesso a provocare azioni empie e criminali” e porta ad esempio il sacrificio umano di Ifigenia, che descrive con un tale pathos da farci immaginare la scena in tutta la sua drammaticità: “Lei vide il padre in piedi davanti all’altare e accanto a lui i sacerdoti che nascondevano il pugnale e tutto il popolo che la guardava e si scioglieva in lacrime. Muta di terrore, piegò le ginocchia …”
Lucrezio condanna qualunque forma di fanatismo e di oppressione religiosa, perpetrati dal potere allo scopo di mantenere il popolo docile al proprio volere.
Mi rendo conto che questo della religione è un tema molto complesso. Non sono né un teologo, né un filosofo e neppure uno psicologo.
Le considerazioni che seguono non sono che un breve commento personale.
Chi è alla ricerca del sé, cerca di ampliare la propria consapevolezza e coerenza ed è rigoroso verso sé stesso. Man mano che acquisisce autocoscienza entra anche in empatia con gli altri e “soffre” per i mali del mondo. Ma diventa anche sempre più tollerante e soprattutto non impone niente a nessuno.
Più si è proiettati verso l’esterno del sé, si ha paura di perdere il proprio io e si sente il bisogno di rivolgersi a qualcosa di così autorevole che possa rappresentare una zattera di salvataggio.
Piuttosto che lavorare su di sé, come sembra suggerirci lo stesso Lucrezio, si preferisce affidarsi a un salvatore esterno, la cui dottrina dovrà essere seguita in modo pedissequo e fanatico.
Ed ecco che è facile per chi vuole detenere il potere sugli altri sfruttare questa debolezza altrui. Così si fa passare per parola divina diktat assoluti a cui si può solo soggiacere e obbedire.
In questo modo si giustificano oppressioni e guerre e il risultato è una generale regressione sia individuale che collettiva.
In campo patologico, in certe gravi psicosi che sfociano in delitti o stragi, spesso l’autore di tali azioni efferate si giustifica dicendo: “Me l’ha comandato Dio o il Diavolo!” oppure “Era sempre nella mia testa e mi incitava a fare questo o quello” ecc.
Lucrezio non si accontenta di stigmatizzare la religione come causa di molti mali, ma sente il bisogno di parlare della natura degli dei quali esseri dalla natura molto sottile e fuori dalla nostra portata: ( II, vv647 e ssg) “godono la loro esistenza immortale nella pace più assoluta, senza alcun legame con noi, estranei alle nostre vicende (V,vv 148 e ssg)”. Non hanno creato il cosmo e non si trovano in qualche luogo qui sulla terra: (V, v165) “quale vantaggio potrebbero avere dalla nostra gratitudine?”.
Eppure il nostro poeta sembra contraddirsi: se tutto nasce dallo scontro delle particelle, tutto è mortale e frutto del caso, come più avanti spiegherò, che c’entrano gli dei? Non se ne capisce né la loro origine né la loro funzione.
Inoltre Lucrezio apre il suo poema con un’invocazione splendida, ma a chi? A Venere! “Madre dei Romani, gioia degli uomini e degli dei, Venere feconda: sotto gli astri che si muovono in cielo tu riempi di vita il mare solcato dalle navi e le terre ricche di frutti” … Seguono immagini di una dolcezza incredibile che cantano la bellezza della vita.
“Tu sola regni sulla natura e nulla senza te potrebbe giungere alle sponde divine della luce … tu sola puoi dare ai mortali il bene della pace” e anche Marte il dio della guerra “ti guarda con la nuca gettata all’indietro, si nutre d’amore … E tu chiedi il dono della pace per i Romani”.
Come la mettiamo? Non si può chiedere logica matematica a un poeta. O meglio: se intendiamo gli dei come esseri antropomorfi, come erano concepiti dagli antichi, è un non senso. Ma se Venere non è che un simbolo, la forza vitale, allora la contraddizione non c’è.
Per Lucrezio la religione è un’invenzione umana, per spiegare fenomeni altrimenti incomprensibili, causa di terrore e angoscia. Così (V,vv1170 e ssg) l’uomo ignaro dei fenomeni della natura si inventò gli dei come esseri perfetti, capaci di terribili collere, responsabili di fulmini, tempeste, terremoti e mille altre manifestazioni potenti.
Di fronte all’immensità e imperscrutabilità dell’universo “un’angoscia sepolta nel cuore da altre inquietudini comincia a risvegliarsi … la mente ignora le cause ed è tormentata dal dubbio che il mondo abbia avuto un’origine”.
E allora ecco i templi, i sacrifici ecc, ma “la vera pietà (pietas) non è farsi vedere ogni giorno con il capo velato, accostarsi a tutti gli altari … la vera pietà è osservare tutto senza essere turbati da nulla”.
L’unica possibile soluzione è per Lucrezio il superamento della paura della morte e di un castigo nell’aldilà e sottrarsi così allo strapotere della religione. Ciò diventa possibile solo attraverso la conoscenza della realtà.
Tutto ha avuto origine dai famosi elementi primi (semina rerum o corpora prima) che immortali vagano nel vuoto in continuazione e scontrandosi grazie a una piccolissima deviazione (clinamen) formano tutto quello che esiste.
Tutto quello che ha una forma segue un ciclo stabilito e, come ha avuto un inizio, così ha una fine. Ma gli elementi di cui è composta si ricombinano e formeranno una nuova entità, perché il principio di fondo è che “nulla ritorna al nulla” (I,v130: haud redit ad nilum res ulla).
(I,v262) “Nulla di ciò che sembra finire si conclude veramente”, principio che verrà riformulato in modo scientifico molti secoli dopo, nel ‘700, da Lavoisier.
Così le specie scompaiono perché altre se ne producano: (II, v79) “come gli atleti di una staffetta si passano la fiaccola della vita”.
La combinazione degli elementi è casuale e questo cosmo si è formato per tentativi, lungo secoli e millenni, finché ha assunto la configurazione attuale. Ciò che è adatto e funzionale permane, ciò che è inadatto scompare.
Anche in questo caso si può forse dire che si tratta dell’anticipazione in embrione della teoria evoluzionistica che sarebbe stata enunciata molti secoli dopo da Darwin.
Questo universo non è stato formato per l’uomo. (V, vv198 e ssg) “la volontà degli dei non può aver creato l’universo per noi. Sono troppi, davvero troppi i suoi difetti”.
Ma il cosmo, in quanto smisurato e frutto del caso, ha prodotto altri mondi ed altri esseri aldilà della terra: (II,vv1044 e ssg) “lo spazio si estende all’infinito oltre le mura del mondo … per noi non esiste alcun confine … come è reso evidente dalla natura del vuoto … non è verosimile che siano stati creati unicamente la nostra terra e il nostro cielo … esistono altre unioni di corpi in altri luoghi simili a quello che il cielo rinchiude nel suo abbraccio geloso … altrove nello spazio esistono regioni diverse dalla nostra, razze diverse di uomini, razze diverse di animali selvaggi … ne esiste un numero infinito”.
Una visione questa per l’epoca decisamente futuristica e ben lontana dalla concezione antropocentrica, che tuttora permane in certe ideologie.
Ma dal momento che tutto è mortale, ha un inizio ed una fine, anche l’universo, per quanto grande sia, è soggetto alla stessa legge. Qui Lucrezio si lancia in immagini apocalittiche, prefigurando la fine di tutto, possibile anche in un sol giorno.
(V,vv365 e ssg) “Esistono corpi che sono in grado di avventarsi all’improvviso dall’infinito e possono travolgere con la loro violenza l’intero universo … la porta della morte non è chiusa per il cielo … Ma anzi si spalanca per loro e li attende nella sua voragine“.
Nel suo poema Lucrezio sente la necessità di spiegare tutti i fenomeni della natura: dai quattro elementi, dai venti, dal fulmine, dal tuono, dalle tempeste, dai vulcani, dalla luce, dal buio, dagli astri e i loro movimenti e così via fino alla natura dei sensi e dell’anima e persino dei “simulacra”, quelli che noi definiremmo fantasmi o allucinazioni o visioni e pure l’origine delle malattie, che culmina con la drammatica descrizione della peste alla fine del VI libro.
Molte di queste spiegazioni potrebbero risultarci oggi un po’ fantasiose e sui generis, ma alcune intuitivamente azzeccate. Non mi attardo su questo argomento, dal momento che non è questo lo scopo della mia chiacchierata.
Altro ci sarebbe da aggiungere, ma temo di essermi dilungata già troppo.
Mi basta sottolineare quale a mio parere è il limite del nostro poeta.
Per fugare la paura della morte o le angosce e limitatezze che attanagliano l’uomo, non è sufficiente la conoscenza, così come la intende Lucrezio. Certo il conoscere come stanno le cose è fondamentale per non soccombere vittime della superstizione, della magia e del potere che riducono all’impotenza e alla schiavitù l’animo dell’uomo.
È un salto di qualità, è un cambio di prospettiva, è … in altre parole una presa di coscienza, “un’esperienza”, quello che ci può mettere in cammino.
È ciò che non solo insegnano soprattutto le filosofie orientali, ma anche ciò che è accaduto ai santi di tutti i tempi (ad esempio S. Francesco per citare il più famoso) e a tutte quelle persone che in seguito a un “accadimento” hanno cambiato vita e modo di pensare.
Tanto è vero che, nonostante Lucrezio si sforzi in tutti i modi di dimostrare come superare le proprie paure, il suo poema è carico di pathos e di pessimismo da un lato, di passione per la bellezza della vita e della terra dall’altro.
Così per un verso il II libro (vv 1072) si conclude con un’immagine sconsolata: “(l’uomo) non sa che la vecchiaia divora tutto a poco a poco e il mondo, stremato dai millenni, s’incammina verso la morte”. E ancora nel V libro: “E il bambino? È come un naufrago gettato su una spiaggia dalla furia delle onde”.
Ma è anche l’autore di questi versi molto dolci: (I,v28) “A noi basta poco. Basta sdraiarci sull’erba tenera con gli amici, sulle rive di un ruscello, sotto i rami di un grande albero”. (III,vv 971) “la vita è data in prestito a tutti, ma non è proprietà di nessuno”, concetto che pienamente condivido, anche se lontanissimo dal credo di oggi, dove l’io e l’egocentrismo sembrano i nuovi Dei del mondo.
Rita Cozzaglio