Come nascono le idee

È stata una bella scoperta leggere il capitolo “Come nascono le idee” nel testo In Un Volo di Storni di Giorgio Parisi, premio Nobel per la Fisica 2021. L’autore, in particolare riferendosi a come procede il pensiero scientifico, si chiede da dove vengano le idee. Nel testo affronta il problema citando Poincaré e Hadamard, matematici vissuti tra il IX e il XX secolo, i quali sostenevano che nella soluzione di un problema scientifico si riscontrano diverse fasi: una di preparazione e studio sistematico del tema da trattare, una definita d’incubazione in cui il problema viene sostanzialmente accantonato, la fase successiva si apre con un’illuminazione improvvisa, arrivata solitamente nei momenti più impensati, mentre nell’ultima fase si dimostra metodicamente la veridicità dell’illuminazione. In effetti uno dei pochi concetti che ricordo del corso di biologia è che Watson e Crick, dopo essersi scervellati per un lungo tempo, sono arrivati all’illuminazione della struttura ad elica del DNA chiacchierando una sera nel pub The Eagle di Cambridge (ora giustamente meta di pellegrini scientifici). Di fatto ciò su cui Parisi pone molta enfasi è proprio sul fatto che il pensiero è anche pensiero inconscio. Einstein sosteneva che l’essere completamente consci è un caso limite che non avviene mai, nel pensiero c’è sempre una parte inconscia. Parisi si chiede, presupponendo che la fase d’incubazione che precede l’illuminazione/intuizione sia inconscia, che tipo di logica segua e come è possibile che avvenga. In effetti abbiamo l’impressione di pensare, anche tra sé e sé, sempre e solo usando le parole e formulando frasi, la forma verbale tuttavia non può esaurire il modo in cui pensiamo. Si può presumere che il pensiero verbale sia preceduto dal pensiero non verbale (il pensiero è di fatto molto più antico del linguaggio). A dimostrazione di ciò si può dire che, in ambito matematico, un teorema nasce sull’intuizione di un enunciato che sembra convincente -un po’ a sentimento- mentre la dimostrazione -che avviene con il linguaggio logico-matematico- è qualcosa che si raggiunge dopo.
Questo discorso, che per gli aneddoti raccontati da Parisi, assume nel testo una connotazione decisamente affascinante e persino sorprendente, fa pensare a come utilizziamo il pensiero preverbale in psicoterapia, scena in cui il verbale è ancora totalmente predominante, soprattutto mi chiedo: “come nascono le idee su di noi?”.
Abbiamo in mente come il sogno, produzione dell’inconscio, possa essere prospettico e anticipare un contenuto che poi il soggetto potrà sperimentare attribuendogli una forma concreta e cosciente nella vita come la dimostrazione dopo l’enunciato del teorema. Abbiamo anche in mente che le immagini della Sand Play Therapy permettono di contattare il mondo interno e ciò che per il soggetto non è ancora dicibile ma decisamente diverso è pensare che il sogno e le immagini debbano essere non solo accolte nel percorso di terapia ma incentivate, ricercate in parallelo perché è uno spazio in più che il soggetto ha a disposizione per incubare un pensiero nuovo su di sé, per arrivare all’enunciato del suo teorema.
Se pensiamo che il sintomo, come diceva Jung è “un’antitesi soppressa”, è l’incapacità di tenere insieme gli opposti, il verbale paradossalmente potrebbe faticare ad essere una via, il verbale segue per lo più le leggi della logica, del dividere, del distinguere, del definire per differenziare e analizzare. Quando c’è bisogno di stare nella contraddizione, di credere all’inverosimile, all’inaccettabile -come spesso accade in ambito scientifico ed è lì che allora si salta di livello e si fa pro-gresso-, i linguaggi facilitanti sono i linguaggi diversi dalla parola, come il sogno o l’immagine, cioè simboli.
Jung stesso ne “L’uomo e i suoi simboli” racconta come la sua psicologia analitica abbia preso forma dalla comprensione dell’inconscio non solo come luogo del subliminale e del rimosso ma come luogo del nuovo, del non ancora, della creatività. Jung cita appunto il matematico Poincaré ma anche il filosofo Cartesio e lo scrittore Robert Louis Stevenson come esempi di geni che arrivarono alla loro personale scoperta attraverso una rivelazione dell’inconscio. Pensieri e idee che non sono mai stati consci in precedenza “crescono dalla buia profondità della psiche come piante di loto”. Interessante come nei giovani sia ora molto di moda tatuarsi i fiori di loto, sembra che ciò che colpisce sia il fatto che questi fiori così appariscenti e colorati, ma ben definiti e ordinati, traggano le loro radici dal fango, dall’oscuro e disordinato mondo subacqueo di stagni e paludi. Paradossale ma di buona speranza che in questo periodo totalmente giocato sull’apparire, soprattutto nel mondo giovanile, riemerga l’esigenza primitiva, ancestrale tanto da essere tatuata sulla pelle, nel corpo, di attingere ad un profondo.
Ma qual è la scoperta di chi inizia una psicoterapia? È la scoperta di sé, o del Sé.
L’azione di auto-indagine non si limita a cercare di capire quello che si è e come si è, ma è anche azione esplorativa di altri mondi possibili di pensiero e, allo stesso tempo, azione trasformativa su di sé. È Luigina Mortari che lo scrive e, partendo dall’assunto aristotelico che l’essenza dell’umano sta nella vita della mente, dove pensiero e linguaggio sono un tutt’uno, si interroga su come avviene il processo di conoscenza della vita della mente: “Noi siamo fatti di pensieri, è nel pensare che germoglia la qualità del nostro essere. È con il pensare che noi ci cogliamo nel nostro essere problema a noi stessi e in quanto tali necessitati alla cura di sé tramite il pensare. Parlare di vita della mente significa sottolineare che ciò che troviamo sotto lo sguardo del pensiero è un flusso di coscienza: un divenire indiviso e indivisibile in cui ogni nuovo vissuto si integra non in modo sommativo ma strutturante poiché ogni vissuto nuovo, incorporandosi nel flusso, lo trasforma. Se accettiamo l’assunzione di un’unità inscindibile dei vissuti della mente, caratterizzata da una compresenza del trascorso, dell’attuale e del possibile futuro in un’unità vivente, allora il processo di analisi, proprio per il suo bisogno di separare un continuum in fasi discrete, risulta sempre inadeguato”. Inadeguato lo tradurrei come indispensabile ma non totalmente esaustivo.
A partire da quest’ultima considerazione e dalla necessità di trovare un metodo che sia tanto efficace da permetterci di arrivare ad un’illuminazione su di noi e che sia, però, anche appropriato ad affrontare un’antitesi soppressa (un sintomo), mi viene in mente il percorso di Sand Play Therapy di una ragazza ospite della comunità per disturbi alimentari. Il suo iniziale percorso di sabbie mi sembra mostri come un vissuto iniziale rimanga per così dire -in incubazione- e nello scorrere delle settimane e delle sabbie, diventi sempre di più un’illuminazione soggettiva.
Annalisa, è una ragazza intelligente, vivace, da qualche anno manifesta i sintomi dell’anoressia. Riconosce di essere estremamente razionale e di lasciare poco spazio al mondo emotivo. Nei colloqui parla di sé come se fosse seduta alla cattedra di un professore per disputare un esame. Parla a macchinetta e con un tono di voce un po’ esagerato rispetto alla prossimità fisica che si ha nello studio medico dove si svolgono i colloqui e poco coerente con l’intimità che il parlarsi potrebbe generare. Inoltre pur parlando di sé, l’impressione che se ne ha è che stia parlando di un oggetto esterno, di una tale Annalisa con cui non ha tanto a che fare. La scelta delle parole è precisa, la trattazione logica ed eloquente ma il risultato finale è che si percepisce una distanza, c’è e non c’è, così come sento che accade al mio coinvolgimento che rimane un po’tiepido. Difficile raggiungerla. Alla proposta di iniziare un percorso di sabbie, accoglie positivamente l’idea.

sabbia 1

Nella prima sabbia crea due montagnole, quando conclude la disposizione delle miniature mi dice: “ecco, se vuole, gliela spiego!” Com’è nel suo stile questa espressione! Poi prosegue: “Ho rappresentato il percorso di guarigione. Sono una lumachina (angolo in basso a ds) che, passo dopo passo, cerca di sconfiggere la paura. Incontra degli ostacoli (gli oggetti di legno) e cerca di salire la montagna più alta, quella del disturbo, rappresentata dagli animaletti più brutti e pericolosi, serpenti, scarafaggi, fino a raggiungere la montagna più bassa, quella della guarigione, con tutti animali bellissimi, carini e che mi danno serenità. È una montagna in cui posso vedermi bene con me stessa e con gli altri. C’è una panchina per sedermi e osservarmi e riposarmi e godermi quello che ho costruito”.
L’impressione che ho già alla prima sabbia è che abbia trasposto il metodo di approccio che utilizza verso di sè, anche alla stanza della sabbia. Molto razionalmente divide, separa. Ne esce una fotografia superficialmente credibile e condivisibile di un ipotetico percorso, sembrano un po’stereotipi; intanto qualcosa, però, sfugge alla pura razionalità e la scelta (che non può essere totalmente razionale) delle bestiole con cui si rappresenta inizia a dirci qualcosa di lei.

Nella sabbia successiva compie un’operazione non comune: nonostante la consegna indichi la possibilità di scegliere tra sabbiera asciutta o bagnata, realizza una doppia immagine utilizzando entrambe le sabbiere.

sabbia 2A
sabbia 2B

“Ho utilizzato 2 sabbie, le ho immaginate come uno specchio, -come mi vedono gli altri, -come mi vedo io”.
Anche in questo caso, applica un metodo razionale, metodico al proprio mondo interno, divide su due sabbie un diverso modo di percepirsi, tuttavia anche in queste sabbie l’immagine che crea è d’impatto: leggerezza e pesantezza, bellezza e schifo. Riesce a dire di sé più di come potrebbe fare con le parole e riesce a comunicarsi di più all’altro. Forse riesce a dirci anche qualcosa rispetto al sintomo alimentare e alla relazione tra questo sintomo e la chiusa irraggiungibilità che percepiamo di Annalisa. Infatti il fatto che affidi la resa delle due diverse immagini di sé, positiva e negativa, al corpo di animali così diversi ci permette potentemente di immaginare come il suo corpo sia stato investito del ruolo di messaggero di questa spaccatura che Annalisa sente. Alessandra Lemma scrive che il corpo è il testamento della nostra relazionalità. “Sentirsi belli o brutti riguarda fondamentalmente una relazione oggettuale”. Il disturbo alimentare può avere anche questo senso: modellare il proprio corpo per dare vita a se stessi, per creare un Sé ideale fantasticato che sarà infine amato. Il sé si ritira nella convinzione di poter creare se stesso, perciò eludendo la relazione e perciò qualsiasi esperienza di dipendenza.

sabbia 3A
sabbia 3B

In questa terza sabbia, adotta nuovamente la pratica precedente: uno split.
“è un po’ come mi sento, sono due parti di me che sono presenti e in cui devo trovare un equilibrio, ora sono molto distanti ma si devono incontrare”.
Commenta la sabbia asciutta dicendo : “sento un buco, sono priva di emozioni, ho usato le farfalle perché le emozioni devono uscire e un robot (oggetto verde sul lato sinistro della sabbiera asciutta), perché certe volte sembro un robot; mi domando se dentro di me ho veramente qualcosa. Nella terra bagnata: ho rappresentato quello che sento, un caos, tante emozioni che fanno guerra tra di loro non riuscendo a esprimersi, non sanno come gestirsi l’una con l’altra. Neanche io capisco cosa provo. Pensavo che l’uno mi appartenesse più dell’altro (il vuoto e il caos), adesso so che ci sono tutte e due”.

sabbia 4

Nell’ultima sabbia c’è di nuovo il metodo di Annalisa applicato alla sabbiera, le miniature sono disposte con un ordine metodico, un po’ossessivo diremmo, il bisogno di controllo appare ancora evidente e di nuovo c’è una separazione, una divisione concreta nel centro della sabbiera dove ha tracciato un solco per poi erigere un muro. Annalisa si è rappresentata come una piccola tartaruga vicino al bordo (in fondo) della sabbiera, quasi sepolta dalla sabbia. “ho voluto rappresentare una cosa che è come se l’avessi addosso tutti i giorni, una barriera, è come se io fossi da sola e non lasciassi entrare nessuno, sono solare ma nel mio mondo non faccio entrare nessuno”. Emerge un vissuto di solitudine ma anche la sensazione che gli altri non solo siano lontani ma anche schierati come un esercito che la fronteggia, se gli altri sono vissuti così che voglia ci può essere di superare il muro? Questo Annalisa non se lo dice, ma anche questo magari è un pensiero che potremmo definire in incubazione.
Queste quattro sabbie, incipit di un percorso, mi sembra che possano mostrare l’evoluzione processuale dello spunto iniziale di Annalisa: passare da una condizione di malattia ad una di guarigione, questo spunto iniziale sembra approfondirsi e soggetivizzarsi, in modo per niente anonimo, nelle sabbie successive in cui c’è come un passaggio sempre più al profondo di sé.
Nella seconda doppia sabbia, infatti, non c’è più solo la rappresentazione della contrapposizione ideale di malattia/guarigione ma la rappresentazione della separazione tra due immagini contrapposte di sé dentro di sé (“come mi vedo io e come mi vedono gli altri”) che Annalisa non riesce evidentemente a tenere insieme, ecco l’antitesi! nella terza doppia sabbia si scende ancora più nel profondo: Annalisa rappresenta la separazione tra diversi modi di sentire il mondo interno -vuoto e caos-, nella quarta sabbia Annalisa ci mostra la posizione soggettiva che il suo sentire assume anche relazionalmente, rappresenta il suo particolare modo di essere nel mondo. Interessante anche che affidi la sua prospettiva a due piccoli animali: la lumaca della prima sabbia e la tartaruga dell’ultima. Animali che, per la presenza di un guscio, hanno in comune essi stessi, nella loro anatomia, la rappresentazione di una polarità antitetica: morbido/duro, dentro/fuori, contenuto/contenitore, protetto/protezione, in vista/nascosto. Allo stesso modo il passaggio da lumaca a tartaruga, come scelta simbolica, mostra già una possibile evoluzione. La lumaca porta in sé una valenza un po’ autarchica, porta la sua casa con sé, non ha bisogno di niente altro, può stare da sola, allo stesso tempo la spirale del suo guscio è evocativa di un possibile percorso spirituale; la tartaruga evoca, invece, un’idea di maggiore solidità e forza ma evoca anche la saggezza ed è senz’altro un animale più sociale.
Forse questa ricchezza di suggestioni non sarebbe stato possibile farla emergere semplicemente in una seduta di psicoterapia verbale. Inoltre è più facile che un pensiero che nasce dall’essere stato rappresentato in immagini porti con sé il suo contenuto emotivo; penso che ciò avvenga per l’immediatezza della figurazione, per il colore, per la materialità con cui prende forma, per l’originalità della scelta simbolica . Citando nuovamente Luigina Mortari: “quando si pensa alla vita della mente è facile farla coincidere con il suo lato intellettuale, come se il lato del sentire fosse inesistente. Invece il “cuore è il vero centro della vita”, intendendo con tale termine indicare non un organo corporeo ma il lato affettivo della vita della mente, l’intimo dell’anima”. Pensare fa emozionare. È facile pensare che Archimede mentre usciva dalla vasca da bagno gridando “eureka, eureka” avesse anche una faccia sorridente ed entusiasta e che magari saltellasse anche un po’. Chissà se anche Leopardi, appena dopo aver composto, non so, A Silvia, era davvero così triste come dicono…Allo stesso modo chissà se per Annalisa, l’esperienza del percepire queste illuminazioni sulla sabbia sia in grado di fare volare le farfalle (per usare un suo simbolo), di farle percepire il lato affettivo della vita della sua mente. Dal mio punto di vista, devo dire che assistere allo spettacolo del suo inconscio che si muove in questa piccola catena di illuminazioni, genera emozioni.

Stefania Greppo


bibliografia

  • Jung C.G. (1964), L’uomo e i suoi simboli, Longanesi, Milano, 2019.
  • Lemma A. (2011), Sotto la pelle. Psicoanalisi delle modificazioni corporee, Cortina, Milano.
  • Mortari L. (2019), Aver cura di sé, Cortina, Milano.
  • Parisi G. (2021), In un volo di storni, Rizzoli, Milano.

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