È successo nuovamente.
Barbara Capovani, psichiatra responsabile del SPDC di Pisa, il 21 aprile è stata aggredita da un paziente – Gianluca Paul Seung – all’uscita dell’ospedale, mentre stava riprendendo la sua bicicletta per tornare a casa. Sono passati 20 anni da un altro caso emblematico simile e nulla è cambiato.

L’8 agosto 2003 Lorenzo Bignamini, nostro caro amico e tra i primi fondatori del CEPEI, era stato aggredito e ucciso all’uscita dal Centro Psicosociale da Arturo Geoffroy, suo paziente ed ex-collega psichiatra. Alcuni particolari sono simili, in modo inquietante. Barbara e Lorenzo erano in uscita dal servizio dove lavoravano e stavano tornando a casa in bicicletta; gli aggressori li stavano tenendo d’occhio in modo premeditato da tempo; l’aggressione è avvenuta in modo efferato a sorpresa loro; entrambi gli aggressori possedevano una balestra (arma che non richiede il porto d’armi perché viene considerata un attrezzo sportivo). Barbara e Lorenzo erano entrambi professionisti molto disponibili, di aspetto e modi gentili, che credevano profondamente nel loro lavoro.
Entrambi i pazienti-aggressori avevano una diagnosi di grave disturbo di personalità, direi a organizzazione psicotica o comunque di gravità borderline estrema: paranoide-antisociale per quanto riguarda Geoffroy, narcisista-antisociale Paul Seung.
Bignamini e Capovani avevano “osato” ricoverare i loro pazienti in reparto psichiatrico (SPDC) per gestire un allarme sociale, formulare una diagnosi e programmare una terapia che, evidentemente, sono state rifiutate e anzi sono state vissute come un’onta “da vendicare”. I ricoveri sono avvenuti in entrambi i casi anni prima dell’omicidio, e questo ci evidenzia il rancore profondo e la premeditazione degli aggressori.

Nel sito dell’ANSA vengono riportati stralci della lettera di dimissione dal ricovero (4/12/2019) di Barbara Capovani su Gianluca Paul Seung: «diagnosi di “disturbi narcisistico, antisociale, paranoico di personalità” dopo un ricovero disposto dal tribunale in seguito a un arresto. Capovani scriveva che dalle “numerose visite” durante il ricovero “sono emersi numerosi sintomi appartenenti allo spettro” di quei disturbi. Sintomi, spiega però, “che non riteniamo responsivi al trattamento farmacologico perché strutturati nell’assetto di personalità”. Per la psichiatra “il paziente appare totalmente consapevole delle proprie azioni e del loro disvalore sociale”, quindi punibile per i reati eventualmente commessi» (fonte ANSA).
Quest’ultima frase solleva dei problemi veramente cruciali per quanto riguarda la diagnosi, la cura e il senso dell’intervento psichiatrico.
Come Michel Focault ha ben descritto nel suo memorabile saggio Storia della follia nell’età classica, tra i diversi risvolti e sfaccettature del rapporto psichiatria-società, la figura dello psichiatra spesso è vista (e si è posta, purtroppo) a ricoprire un ruolo normativo della follia, spartiacque tra il normale e il patologico.
La dimensione dell’inconscio sociale cerca di “espellere” e “alienare” ciò che c’è di intenzionalmente perverso e “cattivo” dell’Ombra collettiva dell’essere umano, relegandola al patologico. L’equivalenza violenza = patologia è una semplificazione che permette di assolverci nei nostri lati più oscuri, ma che mistifica la nostra complessità di soggetti intenzionali e liberi di scegliere il senso che vogliamo dare alla nostra vita. Così – e anche i recenti tentativi di riforma delle leggi sulla psichiatria lo dimostrano bene – lo psichiatra è visto come il garante e il custode responsabile di ogni atto di violenza perpetrato da ogni altro essere umano “malato”, oppure chi è demandato in modo onnipotente alla cura ad ogni costo dell’insanità mentale di chi si pone aggressivamente contro la società. Si passa cioè dall’addebitare all’incapacità di cura dello psichiatra ogni atto violento commesso da un paziente, all’attribuirgli miracolose doti taumaturgiche nel dover curare soggetti che non hanno nessuna intenzione di essere curati, perché magari non provano nessuna reale intima sofferenza rispetto a ciò che fanno. Non è infrequente vedere sentenze prescrittive di “obbligo” alla psicoterapia, alle cure e al ricovero in comunità terapeutica da parte di magistrati che devono giudicare soggetti “non in grado di intendere e di volere” nel momento in cui hanno compiuto un omicidio e altri reati. In alcuni casi sono gli avvocati stessi dei criminali che consigliano di invocare un “vizio parziale o totale di mente” per evitare il carcere ai loro assistiti e indirizzarli verso una più “libera” e rassicurante (apparentemente) comunità terapeutica psichiatrica o alle cure che si possono comunque poi rifiutare.
Nella mia esperienza clinica professionale, non sono così rari i casi di pazienti che sono indirizzati dal magistrato a un ricovero comunitario e che sono assolutamente non idonei a un percorso comunitario che, a differenza della reclusione nelle istituzioni totali (carcere, OPG, ex-manicomio), richiede un’attiva partecipazione alle cure e a un sentire sociale e relazionale percepito come un valore.
I fatti di cronaca di Barbara Capovani e di Lorenzo Bignamini ci impongono pertanto tre problemi e sfide per l’attuale psichiatria:
Problema 1 – la diagnosi.
Gli approcci diagnostici culturalmente imperanti “made in USA”, così comportamentisti e semplificanti, non aiutano il pensiero su quell’unità complessa che è l’essere umano. Per chi legge il Manuale Diagnostico e Statistico delle malattie mentali (DSM-5) è praticamente impossibile distinguere la “personalità antisociale” (quindi una malattia psichiatrica) da una personalità delinquenziale. Lo è anche impossibile per i magistrati (e purtroppo a volte per i periti psichiatri d’ufficio) che devono decidere in quale percorso – carcerario o di cura – immettere il soggetto che delinque. John Douglas, tra i primi investigatori americani che hanno elaborato il criminal profiling, critica l’atteggiamento patologizzante e discolpante di alcuni psichiatri. Secondo Kurt Schneider, «personalità psicopatica è chi soffre e fa soffrire la società», ma oggi la psico-patia è divenuta antisocialità, e ci si è dimenticati di cercare la sofferenza personale in chi commette dei reati e distinguerla da chi invece si limita a far soffrire la società intenzionalmente. Ma può esistere un disagio psichico o mentale senza una sofferenza personale? Non è l’intima sofferenza che ci smuove a chiedere aiuto e a un atteggiamento di cura verso noi stessi?
Problema 2 – la volontà: capacità/incapacità di intendere e volere.
Il film Inside out della Walt Disney ci descrive una intenzionalità umana totalmente governata dalle emozioni e dagli stati emotivi. Ma è così? Noi siamo solo i nostri moti affettivi? Non sembra esserci più spazio nell’uomo per la volontà (categoria che faceva comunque parte della psicopatologia classica). Nel suo senso etimologico la volontà è intesa come «lo sforzarsi dell’animo a conseguire o ad allontanare una data maniera di essere». La volontà ci rimanda il senso che noi vogliamo dare a noi stessi, agli altri e alle cose. È accompagnata dall’essere presenti a sé stessi e da una forza per conseguire tale senso. Ma come si valuta la volontà? Può coesistere con la malattia mentale o la patologia psichica? La constatazione del “vizio parziale o totale di mente” e la conseguente “incapacità di intendere e volere” sono nel panorama giuridico attuale cruciali per determinare un percorso di cura coatto (ossimoro tremendo) o il carcere. Ultimamente il concetto dell’incapacità o meno al momento del fatto-reato si sta estendendo. È la domanda principale posta allo psichiatra: “dica il perito se il soggetto al momento del fatto era capace di intendere e di volere …” e sta travalicando il confine della schizofrenia e delle psicosi per lambire sempre più i disturbi di personalità. Un tempo forse il concetto era più chiaro: un paziente psicotico, a mente non lucida e in preda alle allucinazioni, non sembrava poter esercitare la stessa intenzionalità e volontà di un soggetto normale nel commettere un fatto. Ma che dire del delirio lucido di un paranoico che progetta vendetta per un affronto che lo ha radicalmente umiliato nel profondo (caso Geoffrey)? Che dire della frustrazione narcisistica grave per una presunta squalifica del valore di sé o per la sensazione intollerabile di aver perso il potere sull’altro (caso Paul Seung)? Possiamo dire in questo caso che la capacità di intendere – la presenza a sé stessi – e la volontà sono venute meno?
Problema 3 – linguaggi diversi e discordanze/concordanze
Un ultimo problema importante ci riporta alle figure professionali normative del benessere sociale: psichiatra, magistrato e forze dell’ordine. Nel caso Geoffrey, come nel recente caso dell’assassinio di Pisa, è evidente come ogni ambito professionale, oltre che farsi carico della richiesta normativa della società, ha un proprio codice di attuazione della norma che stenta a parlare in modo fluente e coordinato. Potrei dire con una metafora, una “normativa afasica”. Ricovero, traduzione, cura, intervento, prescrizione, obbligo, sono parole che fanno parte del lessico di questa normativa afasica. La sensazione finale per ogni professionista è quella di impotenza di fronte alla violenza. Lo psichiatra, il magistrato, il carabiniere, spesso si trovano a dire “non ci posso fare nulla” di fronte a una spinta e a una richiesta sociale del “fate qualcosa!”, e al dubbio accusatorio dilagante del “si è fatto tutto il possibile?”. Vero è che il dialogo tra le parti è difficile e stenta ancora. Prendere insieme delle decisioni e sostenersi nel mutuo lavoro e competenza non è mai stato facile. Questi casi però, al di là dell’onda emotiva del momento, impongono una riflessione e un pensiero multi- e interdisciplinare che ad oggi non trova ancora lo spazio sufficiente. Come non è sufficiente dare dei farmaci, piantonare i pronto soccorsi e i servizi o emettere condanne. La cura della parola, in questo caso, deve servire e ispirare anche i curanti. Anche se siamo psichiatri, magistrati o forze dell’ordine, ci aiuta l’approccio della psicoanalisi che, indipendentemente da ogni tecnica e nozione teorica, fa leva sul pensiero e l’autoriflessione propria dell’uomo e ci dice che non si diventa psicoanalisti se prima non ci si pone in analisi personale con un altro. Condividere l’esperienza e concordare il linguaggio è un compito essenziale.
Per concludere, consiglio di leggere il pensiero che spontaneamente è sgorgato dalla vicenda di Lorenzo Bignamini: a distanza di anni l’uno dall’altro sono nati due libri per certi versi speculari, il libro scritto dalla moglie Donata Zocca Una lama nella psiche, e il libro dello stesso Arturo Geoffroy Se segui l’ombra. Una lettura intensa, perturbante, ma che fa eco con la vicenda dell’amico Lorenzo che mi aveva profondamente turbato e interrogato. Solo se sappiamo immergerci senza paura nella complessità potremo cogliere l’intimo dell’intenzionalità dell’essere umano e prenderci cura di noi stessi e degli altri.
Paolo Cozzaglio
bibliografia
- ANSA, https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2023/04/24/narcisista-ma-consapevole-cosi-la-capovani-dimise-il-suo-futuro-killer_c6357ce2-31f5-428e-a3da-3297cb912ab2.html (consultato il 25/04/23).
- Cozzaglio P. (2014) Psichiatria intersoggettiva. Dalla cura del soggetto al soggetto della cura, Franco Angeli.
- Dizionario Etimologico Online – https://www.etimo.it/?term=volere (consultato il 25/04/23).
- Douglas J. (2017) Mindhunter. La storia vera del primo cacciatore di serial killer americano, Longanesi.
- Focault M. (1972) Storia della follia nell’età classica, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano
- Geoffroy A. (2019) Se segui l’ombra. Romanzo, Soffianelli.
- Schneider K. (1924) Le personalità psicopatiche, Giovanni Fioriti Editore, Roma (2008).
- Zocca D. (2008) Una lama nella psiche. Diario di follia, morte e amore, Erickson.
27/08/2023 – Ad integrazione dell’articolo, riporto la lettera pubblicata il 24/08/23 e firmata da 92 Operatori della Salute Mentale del Trentino, dopo l’omicidio “di Rovereto” che ha visto come vittima la Sig.ra Iris Setti:
In qualità di professionisti operanti all’interno dei Servizi di Salute Mentale della provincia di Trento sentiamo forte il bisogno di condividere con la cittadinanza e le istituzioni alcune riflessioni scaturite dai recenti fatti di cronaca e dal dibattito che tali fatti hanno generato.
Siamo infatti consapevoli dello sgomento che tali accadimenti hanno comprensibilmente indotto nella comunità, di cui noi stessi facciamo parte e alla quale in via preferenziale vorremmo rivolgerci, sperando di riuscire ad utilizzare un linguaggio che sia il più possibile accessibile anche a coloro che non conoscono il mondo della Salute Mentale.
Purtroppo, in queste ultime settimane, sono state rilasciate sui giornali molteplici dichiarazioni a nostro avviso spesso imprecise, quando non addirittura fuorvianti, con il rischio da un lato di confondere e disorientare ulteriormente chi si approccia a tematiche tutt’altro che semplici, dall’altro di alimentare lo stigma ed i pregiudizi che malauguratamente accompagnano ancora la nostra disciplina.
E’ ormai sentore comune di gran parte degli operatori e delle operatrici della Salute Mentale (non solo trentina) che vi sia la tendenza generale a vedere nella Psichiatria il deus ex machina da invocare ogniqualvolta accada intorno a noi qualcosa di sgradevole, qualcosa di inconcepibile, qualcosa che tutti noi preferiremmo non vedere e quindi rimuovere dalla nostra società. Quel qualcosa che una volta sarebbe stato definito “pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo”, come recitava la Legge 36 del 1904 relativa alle disposizioni sui manicomi e sugli alienati, che ha portato a confinare nelle quattro mura di un manicomio, a salvaguardia della morale e della sicurezza dei “bravi cittadini”, tutta una serie di personaggi scomodi che gran poco avevano a che fare con la patologia psichiatrica.
Fortunatamente, grazie alla Legge Basaglia del 1978 che ha decretato la chiusura dei manicomi in quanto luoghi di morte civile oltre che fisica, è stata superata quella visione che vedeva nello psichiatra il “controllore” dei suoi pazienti, per lasciare posto ad una Psichiatria di comunità che mette la persona al centro del suo percorso di cura con l’obiettivo di creare un’alleanza positiva e sinergica tra professionisti, utenti e familiari degli utenti.
Questa è la Psichiatria che ci piace e che abbiamo scelto di praticare per passione e per vocazione, oltre ad essere l’approccio che nel tempo si è dimostrato senza dubbio vincente nel dare una risposta efficace e soddisfacente a tutte quelle persone che convivono con qualche forma di disagio psichico.
Tuttavia, da un po’ di tempo a questa parte, siamo molto preoccupati per la nuova deriva che si sta diffondendo nella società e in gran parte delle istituzioni per cui ci si aspetterebbe che i Servizi di Salute Mentale si facessero garanti dell’ordine pubblico, prevedendo, prevenendo e contenendo il compiersi di eventuali reati tutte le volte in cui si ipotizzi una minaccia in tal senso.
Del resto, in una società dove l’esistenza del male, della sofferenza e finanche della morte è considerata un grande tabù, comprendiamo come sia più semplice e rassicurante immaginare che alla base di ogni atto violento e criminale ci sia una patologia psichiatrica che lo giustifichi. Infatti, se il male è causato da una patologia, basta curare la patologia per evitare che il male si compia.
Per quanto non sia facile da accettare, dobbiamo però dirci con onestà che le cose non stanno così. Fino a prova contraria, le persone sono libere di scegliere, anche di compiere il male, e va loro restituita la responsabilità delle proprie azioni.
Se non accettiamo questo, si corre il rischio (purtroppo già realtà) di delegare in toto ai Servizi di Salute Mentale la gestione di problemi che non possono trovare soluzioni unicamente nella Psichiatria. Non si può pensare infatti che un TSO o la riapertura di strutture simil-manicomiali (più volte caldeggiata da qualcuno) possano essere la panacea di tutti i mali. Il problema è molto complesso e, come tale, merita una risposta altrettanto articolata.
Nel caso specifico dell’efferato delitto avvenuto il 5 agosto, sarà necessario acquisire maggiori informazioni per comprendere appieno cosa sia accaduto quella notte e se effettivamente si sarebbe potuto fare qualcosa per evitarlo. Quello che è certo, però, è che l’autore del reato viveva una innegabile condizione di forte disagio sociale e, con tutta probabilità, esistenziale, dal momento che si trovava in un paese straniero, senza fissa dimora, senza lavoro, separato da moglie e figli collocati altrove. Se partiamo dal presupposto che, non tutti, ma molti dei reati maturano all’interno di contesti di grande disagio sociale, di povertà a tutti i livelli, di alienazione che genera devianza, una delle risposte per provare a contenere la criminalità che da essi scaturisce è quella di agire su questi contesti per modificarli e ridurre in tal modo i rischi di potenziali degenerazioni.
Di esempi virtuosi se ne potrebbero citare tanti, uno su tutti la storia del signore nigeriano di 41 anni pubblicata sui giornali nei giorni scorsi. Ex guerrigliero, ex clandestino, ex spacciatore, ha cambiato vita dopo l’incontro con una figura educativa avvenuto in carcere, incontro che gli ha offerto una seconda possibilità. Oggi quel signore è un uomo nuovo e ricopre il preziosissimo ruolo di collaboratore presso il Centro di Salute Mentale di Trento.
In conclusione, cosa fare? Crediamo che la risposta a questa domanda debba essere necessariamente corale. Il nostro lavoro ci ricorda ogni giorno l’importanza di fare rete tra servizi e tra persone. Per questo proponiamo che i servizi (sanitari e sociali), le istituzioni, l’associazionismo, i rappresentanti dei cittadini possano sedersi tutti allo stesso tavolo per dialogare tra loro, approcciare il problema a 360° ed individuare soluzioni concrete, efficaci e condivise. Siamo convinti infatti che l’intervento di tutti (Servizi, Istituzioni e cittadini) sia imprescindibile per promuovere la Salute come bene individuale e della collettività al fine di dare vita ad una società attenta a sostenere tutti, in particolare le persone più fragili, e prevenire così il diffondersi di situazioni potenzialmente ad alto rischio.