Noi che amiamo ragionar di spazi, fisici e psichici, aperti e chiusi, relazionali ed intimi; noi che, leopardianamente, sentiamo il fascino abissale e dolce in cui possiamo naufragare, se con mente immaginifica, ci spingiamo al di là dell’ “ermo colle” che si oppone al nostro sguardo inibendoci gli infiniti orizzonti e d’esperir l’eterno, certamente ricorderemo un libro che fin da ragazzini ha colto e rapito la nostra sensibilità: “Il giardino segreto”, di Frances Hodgson Burnett.
Noi che amiamo ragionar di spazi, fisici e psichici, aperti e chiusi, relazionali ed intimi; noi che, leopardianamente, sentiamo il fascino abissale e dolce in cui possiamo naufragare, se con mente immaginifica, ci spingiamo al di là dell’ “ermo colle” che si oppone al nostro sguardo inibendoci gli infiniti orizzonti e d’esperir l’eterno, certamente ricorderemo un libro che fin da ragazzini ha colto e rapito la nostra sensibilità: “Il giardino segreto”, di Frances Hodgson Burnett.*
Oggi, adulti e “clinici”, forse godiamo di uno studio che felicemente affaccia su un ameno giardino dove, all’uopo, con sollecitudine, strappiamo erbacce, innaffiamo e potiamo, perché sia sempre ridente. O, forse, no.
Ma, certamente, è della stessa stanza d’analisi che facciamo “il giardino” in cui, con dedizione e positività d’animo, portiamo avanti, con l’altro che a noi, paziente, si affida, pur attraverso le asperità dei percorsi e le lungaggini dei tempi clinici, un progetto di cura, condiviso, nostro, che sarà, imprescindibilmente, trasformativo per entrambi.
Ho potuto constatare, proprio nella clinica, come offrire un suggerimento di lettura, fare un richiamo bibliografico, sia utile espediente ai fini del progetto terapeutico; sia il ricorrere ad una, sol apparentemente occasionale, sollecitazione dell’immaginazione; sia un invito strategico ed una efficace proposta ad un parlar altro, metaforico, che pone gli interlocutori su un diverso livello di coscienza e di relazione: un livello “simbolico”, ricco e denso, poetico.
Proprio questa, del “giardino”, e più precisamente del “giardino segreto”, è metafora cara e provatamente felice, che ricorre nell’uso che noi terapeuti ci ritroviamo e possiamo farne nell’ambito della cura dei nostri pazienti.
Come Mary e Colin, i protagonisti dell’opera di F. Hodgons Burnett, terapeuta e paziente. si vincolano reciprocamente ad un segreto; approntano un progetto e mettono mano alla sua realizzazione, contribuendovi con rispettivo impegno e spendendovi con dedizione e generosità ogni energia e personale talento: provando entusiasmo là dove sarà superato un ostacolo; appellandosi – perché questo capita; è inutile negarlo – anche ad un necessario ed auspicabile spirito di sacrificio e, sempre, per il terapeuta, ad una provvidenziale capacità di empatizzare con il proprio paziente.
Dal giardino dell’Eden, in cui si trovavano tanto bene i nostri biblici progenitori – ma ne furono cacciati – come dire, dunque, dagli albori della storia dell’umanità, e, quindi, da sempre, il riferimento allo spazio, e, si noti bene, fin da subito contraddistinto da connotazioni di “verdità” e di grande energia, accompagna noi umani, tanto nella coscienza quanto nell’inconscio.
E che cosa non è mai, peraltro, ancor per noi, l’utero che ci ha ospitati per l’intera nostra gravidanza, se non il nostro personale giardino dell’Eden?
Il tema del “luogo”, con la sequela delle varie e connesse, specifiche ed importanti sottotematiche di: confini (border e boundary), soglie e funzioni (ad esempio, il temenos) – si veda il saggio del Dott. Mauro Bozzola, intitolato: “I luoghi, lo spazio e la psiche” ** – caratterizza in ogni individuo il percorso di ricerca e il processo da parte di ognuno di attribuzione di senso alle proprie esperienze sia di vita reale, sia di natura psichica.
Mi piace ricordare, seppur in toccata e fuga, il caso di una mia paziente. che, seguita per anni, mi riferiva i suoi sogni, ogniqualvolta, al risveglio, fortunosamente se ne ricordava le tracce. Era solita dire di sé che “lei non sognava”, “sognava poco”, “sognava cose senza senso… di nessun conto…”, ma si mostrava molto presa e desiderosa di riferirli al meglio e col maggior numero possibile di particolari, mostrando d’essere in ambascia per il senso e le difficoltà a recuperarne alcuno, qualora il suo sogno fosse “uno dei suoi sogni seriali”, ovvero, come diceva lei, un sogno, l’ennesimo, “sui suoi spazi”.
Tali sogni la accompagnavano ormai da anni, molti, e lei aveva acquisito una chiara capacità a riconoscerli come sequenziali dal punto di vista tematico e “importanti” per la sua vita.
Ad essi attribuiva la capacità di segnalarle “prospetticamente” come essa, appunto la sua vita, stesse andando e come dovesse essere orientata, perché ne derivasse, per lei paziente, uno stato di maggior benessere ed una sempre più viva percezione di crescita individuativa.
Ben, la Nostra, aveva colto che gli spazi portatici dalla nostra attività onirica, ci riguardano: ci dicono dove siamo o eravamo e dove possiamo/dobbiamo/vogliamo essere.
Sono rivelativi dei sensi profondi del nostro percorso individuativo.
Attraverso la metafora, dunque, parlar di un giardino ad un paziente. è segnalargli l’esistenza di un campo di sue potenzialità ed energie; sollecitarlo a “farsi giardiniere”, a combattere l’inselvatichimento dell’area, a prendersi cura della vegetazione, con determinazione, piacere e gusto personale.
Invitarlo a coltivare quel giardino, di cui il sogno gli parla o di cui, in metafora, noi terapeuti gli andiam narrando, è come, mutatis mutandis, nella metafora della casa, ricordargli che la casa è sua e che lui ne è il padrone, mentre gli altri sono solo ospiti, ai quali, se gli aggrada, può offrire cordiale accoglienza, confortevole soggiorno e molte cose ancora, ma certamente, mai la proprietà stessa del bene, pena che, a causa dell’eventuale ed inauspicabile alienazione, a lui ne venga grave danno.
Dunque, queste immagini, che ce le porti un sogno o che ci vengano, con opportunità clinica proposte dal terapeuta, attingendo alla narrativa, ci parlano del nostro spazio interiore e ci riconducono al nostro compito: stare in essi, ovvero viverseli e farli vivere.
Mi sovviene e voglio condividerlo con voi, il passo in cui la Mary de “Il giardino segreto”, accertata la capacità di Dickon di mantenere i segreti, e valutando l’opportunità di chiedergli aiuto e dunque la necessità di coinvolgerlo, infine gli rivela l’esistenza del giardino.
Mary, con un movimento istintivo, lo prese per una manica.
“Ho rubato un giardino” disse affannosamente. “Non è mio. Non è di nessuno, nessuno lo vuole, se ne interessa, o ci va dentro. Forse le piante si sono seccate tutte, ma non lo so.”
Si sentì irritata ed indispettita come da tempo non le succedeva. “ma non importa! Non importa! Nessuno ha il diritto di prendermelo perché sono io la sola persona che se ne interessa. Gli altri no. Gli altri lo tengono chiuso a chiave e lo lasciano morire!” Si nascose il viso tra le mani e scoppiò in singhiozzi.
La carica emotiva contenuta in queste frasi; l’attribuzione di un pianto dirotta alla protagonista, ci toccano e suggeriscono come lì, nell’immagine del giardino, si espleta la nostra autenticità; quello è il luogo in cui incontriamo noi stessi, in cui siamo sollecitati a farci Soggetti riflessivi e sperimentiamo proprio con noi stessi, o tra noi e noi intimamente, la natura dell’intersoggettività.
E ci piace pensare che il giardino sia tutto intorno alla casa, a costituire un bel mandala.
Laura Zecchillo
* “Il giardino segreto” , Frances Hodgson Burnett – Feltrinelli