Quando leggendo un libro, mi imbatto in un autore che scrive ciò che io penso, vivo e sento, sono contenta, perché tale circostanza mi permette di vincere quelle incertezze o di dissipare le eventuali bave di dubbio che a volte nutro sulla natura, sul valore e sull’attendibilità dei miei vissuti e sulla correttezza dei miei pensieri.

Questo felice caso si è dato per me ancora una volta di recente, quando ho letto l’opera-saggio di Irvin D. Yalom intitolata “Il dono della terapia”, volume che mi è stato regalato. Dello stesso autore avevo in precedenza letto dell’altro, ma solo leggendo “Il dono della terapia”, ho “scoperto” davvero Irvin D. Yalom. Ovvero, potremmo dire, ho incontrato “un amico”, al di là delle coordinate e dei parametri usuali spazio-temporali dell’amicizia.

Irvin D. Yalom è autore di varie opere, che, partorite dalla sua penna di docente di psichiatria presso la Stanford University della California, dove egli vive e lavora, appartengono sia alla saggistica, sia alla narrativa, ambito nel quale egli si è mostrato scrittore di bestseller di notorietà e successo internazionale.

Non più giovanissimo – ora il Nostro ha 77 anni circa – pare, nei suoi ultimi scritti, che si tratti di romanzi o di saggi, voler un po’ trarre le fila, fare il punto, sui molti anni di professione e, nel caso suo, di vita. Dico questo, perché, di fondo, mi pare che il Nostro sia e si sia fatto più convinto che per la conduzione ed il buon esito di una terapia, è importante, essenziale, che il terapeuta “ci sia”.

Non mi si fraintenda.

E’ ovvio e scontato ch’egli ci sia e debba esserci, ma qui si vuole rimarcare che, per Yalom, il terapeuta debba essere pronto, disponibile, a mettersi in gioco, nella relazione, in piena autenticità.

L’introduzione del libro inizia con il sogno di un Pazienti di I. D. Yalom che riportato in corsivo così recita: “È buio. Vengo nel suo studio ma non la trovo. Lo studio è vuoto. Entro e mi guardo attorno. L’unica cosa che c’è è il suo panama. Ed è tutto pieno di ragnatele.”

Seguono una serie di osservazioni e riflessioni di Yalom Sulla propria età e soprattutto sul fatto che, essendo essa avanzata, i suoi Pazienti manifestano – perfino nei loro sogni; si veda quello, ad esempio, riportato sopra – la propria preoccupazione sul possibile seguito, sul successivo sviluppo e sull’eventuale esito della propria terapia.

Il Nostro osserva anche come un qualunque evento connesso alla persona del Terapeuta venga vissuto dal Pazienti come un fatto gravemente ansiogeno, irreparabile e catastrofico: un malanno che ne affligge la salute, un imprevisto che lo costringe ad un’assenza inevitabile, il ricorrere da calendario delle separazioni nella terapia, suscitano, alla meno peggio, curiosità, ma a questo dato ovvio, egli Yalom ha osservato, si somma la produzione di timori e fantasmi, la cui natura, quantità ed incombenza, arreca al Pazienti un inopportuno, sgradevole aggravio al suo malessere di fondo, quello che lo ha portato nello studio della terapia.

Le considerazioni che Yalom sviluppa su questa questione, non sono fine a sé stesse e non mirano a soddisfare una qualche malsana forma di autocompiacimento del Terapeuta che rileva in una logica “sbadatamente” narcisistica quanto egli sia importante per il suo Pazienti ed il suo Paziente, dipenda da lui, ma vengono formulate, perché noi suoi lettori si comprenda un passaggio concettuale che egli ci porge immediatamente dopo, un passaggio concettuale di assoluto rilievo ai suoi occhi e di cui egli vuol mostrare anche a noi l’importanza: quello della natura curativa della relazione, della sua naturale forza “trasformativa” per entrambi i soggetti in essa coinvolti.

La relazione è presentata quale strumento terapeutico di fondo, insostituibile e prioritario. Tutto ciò viene illustrato attraverso chiari esempi, estrapolati da vari e significativi casi seguiti da Yalom nel corso della sua lunga carriera professionale.

Egli afferma come nella relazione, il modo autentico di porsi del Terapeuta davanti al suo Pazienti renda quella in atto una relazione squisitamente umana, orientata al superamento degli aspetti di dipendenza del Pazienti dalla figura del Terapeuta o al superamento di quelli dell’interdipendenza.

A questa serie di concetti ed alle riflessioni ad essi correlati, il Nostro fa seguire un rimando al concetto di “generatività” che dice di aver rinvenuto nel pensiero e nelle opere di Erik Erikson e di aver tanto apprezzato da averlo fatto suo. Ce lo chiarisce ed illustra: esso è lo stadio tardivo dell’esistenza, quella fase in cui, deposto il proprio narcisismo, l’attenzione del soggetto si sposta dall’espansione di sé, verso la cura e la preoccupazione per le generazioni a venire.

A nostro avviso, in questo concetto, benché nel suo saggio Yalom non faccia uso del termine “intersoggettività”, è ravvisabile, non vorrei dire l’ombra o l’eco – mi parrebbe svilente tal formulazione di così bel concetto – ma certamente il riverbero: nella generatività risplende e si riflette la luminosità del concetto di intersoggettività. L’una e l’altra non sono un accogliere con generosa e benevola empatia l’altro, nella sua intera e complessa umanità, oppure un percepire, nel divenire dell’incontro, i propri limiti e le proprie fragilità, ma è un protendere, insieme, verso una realizzazione che accoglie e trascende l’uno e l’altro, il farsi di un “Terzo” che non nasce come giustapposizione o somma di parti o della totalità dell’uno e dell’altro, ma come “altro”, come evento nuovo, frutto di un atto, unico, originale e creativo.

Infatti, il Nostro, poi, calandosi nel concreto ci invita a:

– Interpretare la nostra funzione terapeutica innanzitutto come impegno a rimuovere gli ostacoli che bloccano la strada del Pz, che “… proprio come una ghianda diventerà una quercia…”. (op. cit. pag. 17), diventerà ciò che già è in nuce al suo nascere;

– Evitare la diagnosi (“… senza dubbio fondamentale per la riflessione sul trattamento di molte situazioni gravi con un sostrato biologico … ma spesso controproducente nella psicoterapia quotidiana dei Pazienti meno gravi.”). (op. cit. pag. 20);

Yalom sviluppa poi un concetto che a me è molto caro e che ancor più mi rende disponibile ad accogliere nell’insieme il pensiero di Yalom e mi fa sentire in profonda sintonia con Lui, quello del Terapeuta e del Pazienti che sono “compagni di viaggio”. Egli scrive. “… Io preferisco pensare ai miei Pazienti e a me stesso come compagni di viaggio, un termine che abolisce le distinzioni tra loro (coloro che soffrono) e noi ( i guaritori)”.

Non riporto in questa sede per mere questioni di spazio – e me ne dispiaccio, ma invito ognuno che volesse approfondire questo concetto di fondamentale importanza nella visione del Nostro, a rifarsi al testo di cui qui discorriamo (op. cit. pag. 24) – il racconto contenuto in “Il giuoco delle perle di vetro”, di Hermann Hesse dove si narra la commuovente storia di due guaritori, Joseph e Dion, che Yalom riassume per noi e ci porge per farci comprendere in un modo piano e semplice come la terapia, quale processo di evoluzione in senso individuativo per entrambi i protagonisti sia il Terzo che li trascende e anche li contestualizza nella e come “Presenza del tutto” (art. di Paolo Cozzaglio “Intersoggettività e transfert”, rivista Cepeide, 17 gennaio 2015).

Nella clinica, il Nostro dice:

–          È fondamentale coinvolgere il Pz.

–          Essere per lui un sostegno (suggerisce che ciò sia possibile se il Terapeuta guarda “… dal finestrino del Pz.”, ovvero se empatizza con lui).

–          Essere oggetto di empatia è, per il Pz,, il modo grazie al quale egli stesso può divenire soggetto capace di offrire nelle sue relazioni la propria capacità empatica: ricevere empatia ci rende capaci di dare empatia!

Avviata la lettura di questo saggio, imbattutici in questi primi, ma fondamentali concetti, ci ritroviamo catturati dallo sviluppo, a cascata, di quelli che seguono, tanti ed importanti, pervasi tutti da una idea di fondo, una chiarezza essenziale, una convinzione radicatissima: la considerazione da riservarsi alla persona del Paziente che dovrà essere squisitamente e generosamente umana. Così attenta a questo imprescindibile aspetto, da far apparire, ad esempio, ottima cosa, l’eventuale scardinamento del setting a più livelli, da rendere discutibile il ricorso all’idea e alla pratica del Terapeuta quale schermo neutro, dell’assunzione e del rispetto rigoroso delle regole relative alla cornice e al contratto, da imporre la riflessione critica sulla natura e sul significato del transfert e del controtransfert e sulla possibilità di una interpretazione esaustiva dei sogni e della validità della pratica interpretativa, ecc.

Per lo stile chiaro e l’approccio discorsivo, è, questo, libro che si legge tutto d’un fiato … per poi tornare a consultarlo, secondo specificità d’interesse, riscontrando quanto, per impostazione, tale operazione riesca decisamente agevole.

Personalmente ho trovato utile addentrarmi con la lettura anche nei “nuovi pensieri, nuovi sviluppi” maturati dal Nostro in riferimento agli apporti teorici e clinici derivanti dalle Neuroscienze e mi sono sentita “divertita” e molto vicina all’Autore nel leggere la conversazione con cui l’opera si conclude: mi è parso di conoscerlo da tempo e di aver maturato con lui – al pari di due compagni di viaggio – un “bel” rapporto d’amicizia”.

Laura Zecchillo