Intervista inedita di Paolo Cozzaglio a Silvia Montefoschi sull’intersoggettività, prendendo in esame “L’uno e l’altro” e “Storia di colui che è in coloro che sono” (Opere vol. 3, Ed. Zephyro). L’argomento è il Transfert secondo la prospettiva intersoggettiva di Montefoschi in psicoanalisi. Sarzana, Maggio 2006.
Cozzaglio: In “L’uno è l’altro” tratti dell’intersoggettività nella pratica psicoanalitica. Come sei arrivata a questo momento, chiave del rapporto psicoanalitico?
Montefoschi: Qui c’è da rifare tutto il discorso dall’inizio dei tempi, perché l’intersoggettività in me si è arrivata a svelare come l’originaria dualità dell’uno, che non è più un problema di relazionalità soltanto umana: l’uomo che deve passare da un tipo di relazione a un altro tipo di relazione. La storia dell’uomo è, infatti, il punto di arrivo della storia del pensiero. Infatti, nell’ultimo libro che ho scritto [“Storia di colui che è in coloro che sono” N.d.R.] arrivo a questo punto, per cui l’intersoggettività è il punto di arrivo dell’evoluzione del pensiero a partire proprio dal big bang in poi.
Quello che a me veniva da pensare, partendo proprio da “L’uno e l’altro” come il primo libro dove in te questo discorso sull’intersoggettività si è fatto più chiaro, è che il primo momento è proprio quello che si è dato nel rapporto psicoanalitico.
Certo, perché il rapporto psicoanalitico è un rapporto duale. Infatti, questo è raccontato come percorso nel penultimo libro. Io mi sono trovata già a vivere dal livello di coscienza dell’intersoggettività, se no non avrei potuto descrivere l’interdipendenza, se non mi fossi già trovata a un livello di riflessione superiore. Perché chi è dentro l’interdipendenza non può vederla. Se, infatti, tu rileggi l’introduzione di “L’uno e l’altro”, lì già appare come l’intersoggettività si dà come tensione all’interno della relazione stessa, laddove la psicoanalisi non è altro che il punto di arrivo di tutto il pensiero filosofico.La psicoanalisi nasce all’inizio del ‘900, nel momento in cui il pensiero comincia a riflettere sul suo stesso modo di pensarsi, e là dove scopre la riflessione nella relazione. Quindi, era dalla psicoanalisi che si doveva partire, perché e lì che il pensiero comincia per la prima volta a veder se stesso nella modalità della relazione. Incomincia nella relazione psicoanalitica, che si pone come prototipo di ogni modalità relazionale. Non è, infatti, una relazione a parte, a latere, specifica, specialistica, un artefatto, è il prototipo di ogni relazione umana.
Ecco, io mi chiedevo rispetto ai termini usati dalla psicoanalisi in precedenza al tuo pensiero: il transfert e il controtransfert. Ne “L’uno e l’altro” tu prendi in esame, rivedendoli, questi termini. Nella relazione psicoanalitica concreta che tu hai avuto con le persone, come hai man mano sentito maturare il discorso sull’intersoggettività?
Io da subito ho capito l’intersoggettività doveva fare i conti con l’interdipendenza. Tant’è che anche ne “L’uno e l’altro” è scritto che il primo modo dell’altro di approcciarsi a te è quello di porsi come oggetto della tua osservazione, della tua tensione, del tuo amore, della tua interpretazione. Da qui tu devi partire per portarlo ad una posizione di intersoggettività. Questo avviene anche frustrando, non soddisfacendo, l’aspettativa dell’altro. Frustrando il tuo stesso rispondere all’aspettativa dell’altro. Se vogliamo ancora usare il termine di frustrazione, questo va usato nei confronti dell’analista stesso.Tuttavia il primo modo di darsi della relazione, come modo relazionalmente umano, è quello dell’interdipendenza. Interdipendenza tra il soggetto e l’oggetto, tra chi dà e chi riceve. Per cui, la tendenza è sempre quella di soddisfare quella che si ritiene essere l’aspettativa dell’altro. Quando qualcuno va dal medico sa che deve descrivere se stesso come oggetto, porsi come oggetto. Così, quando si va dall’analista, si fa la stessa cosa, ci si pone come oggetto, pensando solo così di mantenere in vita la relazione, soddisfacendo l’aspettativa dell’analista che si pone come soggetto. Solo progressivamente, come è detto nel libro, c’è un momento critico: sospendere la risposta alla richiesta. È un momento drammatico, un momento d’angoscia. In quel momento sembra di sospendere addirittura il flusso relazionale, finché l’altro si accorge che tu analista resti nella relazione, pur non soddisfacendo più quell’aspettativa.
Questo si è detto subito in te, o vi sono stati dei momenti, o delle relazioni, che più di altre ti hanno …
Ma sai, io l’ho fatto con la mia stessa esperienza analitica con Bernhard.
Ma con Bernhard l’esperienza analitica non veniva considerata da questo punto di vista …
No non veniva vista così, ma la modalità era quella. Io non mi sono mai sentita dipendente da Bernhard, proprio no.
Ma lui non faceva letture sul transfert?
Il transfert non esisteva. Bernhard non l’ha mai fatta la lettura sul transfert, proprio no. A parte il fatto che già Jung non la fa!
Jung però ne parla.
Sì, ne parla per giostrarsi un po’: dice che in un primo momento ci può essere una deriva sul transfert, ma se tu leggi il libro di Jung sulla traslazione, lui lo vede solo come reciprocità di un investimento. Nel senso che l’uno demanda all’altro l’animus suo, che l’altro demanda l’anima, finché ciascuno si recupera l’animus suo e se ne va a casa con l’ermafrodito suo [si ride] anziché cogliere che l’altro deve incarnare veramente il tuo femminile interiore. Comunque lui non vede il transfert.
Lui ne parla addirittura come di un ostacolo alla relazione.
Esatto, un ostacolo da eliminare. Si, ma lui ne parla ancora cosi perché … Insomma, il concetto di transfert colto da Freud, non fa in realtà che considerare la dinamica dell’interdipendenza, solo che lui la riferisce al rapporto figlio-genitore, ma in realtà è l’unica modalità relazionale dell’umanità. Ma perché? Tra te e il vigile non si instaura lo stesso tipo di rapporto? Questo è l’assolutamente nuovo che a me si è svelato, che quella modalità relazionale che viene letta in chiave di transfert –cioè di trasferimento di affettività da una figura, che era quella parentale, sull’analista- in realtà non va letta così. Va letta che in realtà è l’unica modalità relazionale che si dà nell’umanità. E nel libro “L’uno e l’altro” ne do anche la spiegazione.
In questo senso, Freud vedeva il transfert anche come una vera e propria difesa dal prendere in esame, da parte del paziente, i contenuti inconsci che in analisi l’analista cerca di stimolare. In questo senso si potrebbe dire che se il rapporto rimane sempre interdipendente, effettivamente è un ostacolo nel progredire dell’analisi.
Ma certo, ma è automatico! Non è che il paziente lo fa per difendersi, è che fino a che tu demandi all’altro il potere di giudicare del bene e del male, e non te lo assumi tu, succede che non rifletti su di te e non prendi consapevolezza. Questo avviene anche negli altri rapporti, tra amici, tra moglie e marito, nei rapporti normali o di lavoro. L’altro è quello che mi giudica, e di conseguenza, caso mai, io mi oppongo, resisto all’altro che avanza su di me questo giudizio, e non colgo quanto l’altro dice come un motivo per riflettere su di me e riconoscermi. Si vede cosi l’altro come quello che giudica e basta. Infatti, molti pazienti continuano a portare dentro di sé questa tematica del giudizio e a proiettartela addosso. Io dico quanto vedo, vedi tu se ti quadra.
E questo è appunto il momento in cui effettivamente si può prendere consapevolezza di essere soggetti riflessivi, anche da parte del paziente.
E infatti io insisto molto che il metodo è solo e soltanto il mettere l’altro, il Soggetto Riflessivo, con le spalle al muro. Costringere l’altro alla riflessione. Il rimandare all’altro. Certo, dandogli anche gli strumenti perché questo possa avvenire. Sul principio uno può anche non avere gli strumenti, ma comunque è bene cominciare da subito. In me si è sempre più raffinata questa modalità.Normalmente chi fa questo lavoro e si identifica con il terapeuta, crede sempre di dover risolvere il problema dell’altro. Di dover togliere all’altro lo star male, o comunque di risolvergli il problema. E si crede in dovere di dargli le interpretazioni. Il paziente è li, ti sciorina una serie di fatti senza neanche averli coordinati, e l’analista si sente in dovere di essere lui a coordinare. Invece no. Bisogna spingere l’altro a farlo: “Perché mi dici questo? Qual è la motivazione interiore, emotiva, che ti porta a dirmi questo?”. Poi, piano piano, è necessario aiutarlo a coordinare il discorso, che porti un discorso ordinato, che poi è tutto il contrario della modalità freudiana per cui uno deve andare lì e “aprire bocca e dargli fiato”, come si suol dire.
Il contrario del metodo delle libere associazioni.
Si, che non servono a niente, se non a fare dell’analista il detentore del potere di comprendere, ordinare, fare. No, è il paziente che deve capire, non l’analista.
Con le libere associazioni uno si può permettere di dire qualsiasi cosa gli passa per la mente …
Demandando all’analista il potere di comprendere, di mettere insieme. E cosi rimane sempre la differenza tra l’analista che fa il soggetto e il paziente che rimane l’oggetto della conoscenza dell’analista.
Allora non è un caso che, in quest’ottica più freudiana, si dà il transfert. Perché qui viene quasi sancita la modalità interdipendente di rapporto tra analista e paziente.
Si, se per transfert si intende il trasferimento del potere di giudicare e di conoscere. Non tanto, dunque, l’affettività che avevo verso papà e mammà. E’ la demandazione. Trasferisco sull’altro la mia capacità di giudizio, il che equivale a dire che demando all’altro la mia funzione riflessiva.
Infatti, Freud dice che il transfert è assolutamente tenace nella relazione analitica.
Eh beh, dipende da lui. Il fatto è che lui abboccava all’amo … [ridiamo]. Eh, per forza che è tenace, perché è l’unica modalità relazionale conosciuta. Certo che si ripete fin dall’infanzia, perché è l’unico modo di esserci in relazione. L’unico modo per avere la propria identità è quello di essere riconosciuto dall’altro, di essere amato dall’altro. Quindi è necessario soddisfare l’aspettativa dell’altro. Devi essere per l’altro, come l’altro ti vuole. Infatti, la prima modalità per soddisfare l’aspettativa dell’altro, è quella di identificarsi con l’immagine che l’altro ha di te, e di non tradirla.
Già con Bernhard si dava un altro discorso?
Si lavorava già sulla dimensione dell’inconscio e sulla progettualità dell’inconscio. Non è stata mai esaminata minimamente una problematica di storia personale.
Però tra voi non si parlava ancora di “intersoggettività”?
No, no, no, questo termine l’ho introdotto io.
Dunque, almeno all’interno della relazione analitica l’intersoggettività -intesa come la modalità di entrambi gli interlocutori, che si pongono come soggetti riflessivi sulla vita e sulla propria esperienza- è possibile.
Non solo. Io dico di più. Dico che l’intersoggettività è prima ancora della soggettività. Questo l’ho elaborato di più negli ultimi libri.Anche nell’interdipendenza si dà un gioco delle parti. L’unico possibile gioco delle parti che si dà per mantenere in atto la relazione, ma non è che uno non si riconosce come soggetto. Il guaio è che per sentirsi soggetto bisogna riconoscersi tali al cospetto di un altro soggetto. Se io fossi solo, uno, non potrei sapermi come soggetto. Il soggetto singolo, non sa di sé. O pone sé fuori di sé, e si vede nell’immagine di sé quale oggetto della sua visione, o si riconosce in un altro soggetto.Quando il bambino nasce, si riconosce come esserci del soggetto -che è la Presenza- al cospetto di un’altra Presenza che lo riconosce tale. Tant’è che io descrivo ne “L’uno e l’altro” come l’interdipendenza sia l’unico canale per giungere all’intersoggettività. E l’intersoggettività non si dà, data l’istituzionalizzazione dei ruoli, se non nell’interdipendenza. Il fatto è che tu sei costretto a mantenere l’altro nella relazione per esserci come soggetto, quale Presenza al cospetto dell’altra Presenza, come il “ci sono” del soggetto; ma per mantenere l’altro nella relazione devo pormi come oggetto, per soddisfare questa sua aspettativa, dovuta viceversa a quest’altra dimensione che è quella del gioco dei ruoli. Io ho bisogno di te come soggetto, ma se la tua aspettativa è quella che io sia invece un oggetto dipendente da te, io mi faccio dipendente da te. Come il bambino, che fa a finta di non essere capace ad allacciarsi le scarpe per non frustrare la madre, per non destituirla dal suo ruolo che a lui è necessario, perché la madre è anche il soggetto nel quale lui si riconosce come soggetto.
E questi momenti si alternano.
E’ un gioco dei ruoli, a volte uno fa l’oggetto e l’altro il soggetto, o anche, contemporaneamente, si stabilisce che su un certo piano dell’esistenza uno fa il soggetto e l’altro fa l’oggetto, e su un altro piano si inverte. Prendiamo ad esempio la coppia coniugale, la relazione più istituzionalizzata che esiste. La donna, per quanto riguarda il rapporto con il mondo sociale e della spiritualità, demanda all’uomo il potere di soggetto. Invece, per quanto riguarda la vita biologica, la vita della sopravvivenza -in poche parole il quotidiano casalingo- è lei il soggetto e lui l’oggetto. Lei sola sa dov’è lo zucchero. Lui deve dipendere da lei per sapere dov’è lo zucchero. Mentre è lui che dice a lei cosa deve votare.Forse adesso non più, o comunque, pur permanendo questi ruoli, si assottigliano queste differenze.
Ritornando al rapporto analitico, che dovrebbe essere quello in cui si scopre l’intersoggettività, ci sono comunque situazioni in cui pare che l’altra persona abbia una modalità relazionale che non pare fondarsi con evidenza sul rapporto esistente in quel momento tra analista e analizzando. Piuttosto sembra effettivamente ripetere delle modalità relazionali che quella persona ha vissuto altrove. E’ questo qualcosa che assomiglierebbe, allora, al transfert classico? Senza per forza andare a pensare al rapporto passato con i genitori, questa situazione capita comunque, a volte.
Ma non è che l’ha presa altrove, è che è l’unica modalità relazionale, costante. Fammi un esempio.
Una donna che viene da me in analisi, alla fine di una seduta mi dice che si era innamorata di me, in modo molto esplicito. Desiderava e sognava dunque che avessimo una relazione, che facessimo l’amore insieme, che facessimo insieme dei figli.
Ma non è che trasferiva niente su di te! E’ che siccome l’unico rapporto uomo-donna è quello, lei non vedeva che quello.
Effettivamente, io cercavo di parlarne in questi termini, e cercavo di rimandarle che in fondo l’amore lo facevamo attraverso il dialogo che avevamo nel rapporto analitico, anche se poteva non sembrare così proprio per la comune modalità di vivere il rapporto uomo-donna. Però, da parte sua sembrava che la dimensione che lei chiamava dell’amore -io non lo percepivo come tale- in quel momento sembrava interrompere il dialogo.
Certo. Quando i due si innamorano, si innamorano sul piano del pensiero. Non è che uno si innamora della vagina dell’altra, e lei del pene dell’altro. Questo non si dà. Il cane sente l’odore della cagna in calore, ma non è che gli umani si innamorano dei corpi. Semmai, per la soddisfazione corporea c’è la prostituzione, che poi anche quella sarebbe legata ad immaginazione di tipo sado-masochista … Comunque, nell’innamoramento è l’amore che ama l’amore, e l’amore è il desiderio dei due nel tornare ad unirsi. Siccome gli umani sanno di essere soggetti pensanti e non corpi soltanto, il desiderio è quello di unire il proprio soggetto pensante all’altro soggetto pensante. Tant’è che nell’innamoramento ciascuno dice all’altro il proprio infinito, ciascuno racconta all’altro il proprio universo. Dopo di che, siccome si dà per ovvio che i due debbano costituire la coppia istituzionalizzata coniugale -che sia o non sia legittimata questo non ha importanza, c’è sempre di mezzo l’unione a scopo procreativo o di appagamento- allora in quel momento ricadono nei ruoli e cessa il discorso. Cessa il discorso, anche perché nel momento in cui si stabilisce la coppia istituzionalizzata, la coppia fissa -tu sei l’uomo mio, io sono la donna tua- succede che ognuno si pone per l’altro come l’intero universo. E impedisce all’altro di allargare la sua stessa visione del mondo.Uno diventa geloso dell’altro, anche del libro che legge, capisci? Proprio perché ognuno si costituisce come l’intero universo, come esaustivo per l’altro, come l’unico oggetto di valore per l’altro. E’ la coppia fissa, che è l’istituzionalizzazione che con l’amore non ha niente a che fare, perché è legata all’organizzazione sociale. Tant’è che negli animali non esiste neanche la coppia fissa.L’amore c’è quando c’è, nel momento in cui c’è. La relazione d’amore c’è nel momento in cui c’è, se non c’è, non c’è. Anche se i due, nel momento in cui si rincontrano ravvivano il discorso. I due si mettono insieme in questa struttura istituzionalizzata, chiusi nel piano della stessa casa, ognuno per i fatti suoi, ognuno con i problemi suoi, ma devono continuare a rimanere nel ruolo dell’uomo e della donna della coppia. Quando in quel momento magari l’amore non c’è, non corre, non fluisce.
Di fronte a un discorso di questo tipo, questa donna ribatteva che era un bel discorso teorico, ma che ero io che invece volevo mantenere i ruoli, quello di analista e di paziente.
Ma perché, quello di moglie e marito non sono ruoli lo stesso? Io le avrei rimandato questo, scusa sai [ride]. Il ruolo di moglie e marito sono ruoli. L’amore non implica necessariamente essere moglie e marito. Può portare all’unione di due -che sia sul piano fisico, che sia sul piano spirituale- nel momento in cui si incontrano, ma non ad istituzionalizzare delle posizioni fisse: quelli sono ruoli. Bastava dirle questo: tu mi vuoi togliere dal ruolo di psicoanalista, per mettermi nel ruolo di amante o di marito, o di uomo tuo, ma anche quello è un ruolo.
Allora ciò che può far uscire dal ruolo è il dialogo senza più ruoli.
Senza ruoli. L’amore non ha ruoli. L’amore è l’amore.
C’è molto però l’immagine che, per vivere l’amore, in realtà ci debbano essere dei ruoli.
Questo per rassicurarsi. Perché è difficile amarsi senza … Mette i freni all’amore, imbriglia l’amore, perché l’amore è una potenza … enorme! E quello è un modo di imbrigliarlo. Infatti, lungo il mio percorso di lavoro psicoanalitico con gli analizzandi, arrivava il momento in cui l’altro diceva: si, io sento quest’amore, ma tu non sei mia moglie, non sei la mia amante, non sei mia madre, non sei mia figlia, non sei mia sorella … Embè? E perché, l’amore deve avere queste caratteristiche? Perché è un modo di imbrigliarlo, di difendersi da questa potenza dell’amore.
Si, questo con le persone con cui si lavora da tempo succede. E fa quasi paura. Molti lo dicono come spaventati, il fatto che non riescono più a trovare un ruolo.
E certo, e certo, perché devono definirlo, imprigionarlo, scaricarlo. Sia che lo scarichi facendo la minestra al figlio, sia che lo scarichi accoppiandoti, sia che lo scarichi -non lo so- andando al cinema insieme … devi fare qualche cosa. Perché reggere la tensione dell’amore [sospira] è reggere un’alta tensione. L’amore è uno stato di erotizzazione che non si scarica mai.
Un altro argomento che esce spesso, quasi come un’obiezione se vogliamo, è che un dialogo come quello che si vive in analisi è difficile viverlo in un’altra situazione. Io me lo sono sentito dire diverse volte.
Dipende. Chi lo dice? Io non ho avuto altri rapporti nella mia vita se non di questo tipo. Io non ho avuto altri rapporti. Anche tutti i miei amanti hanno sempre fatto parte di questo stesso mondo, di questo stesso universo di discorso.
In fondo è proprio quella che è anche l’obiezione: che poi nei rapporti -passami il termine- più consueti è difficile ricreare la stessa cosa. Per esempio, con la persona con cui uno convive.
E chi l’ha detto? E’ difficile, ma bisogna metterlo in atto. E se no a che serve il lavoro psicoanalitico? Per questo, sin dal primo libro, io dico che è il prototipo del vero rapporto umano.
Perché molte coppie, in realtà, possono andare in crisi. Quello che avviene è che se l’altro non entra in questo tipo di dialogo, la coppia poi va in crisi.
Bene, è chiaro.
E tu dici: non può essere che così …
Non può essere che così! E nel momento in cui l’altro non vuole che vada in crisi, molla l’analisi. Non c’è niente da fare.
Ti è capitato anche questo?
Oh, recentemente! Un mio allievo mi aveva indirizzato un uomo, una storia interessante, singolare e valida. Questa persona, che fa l’autotrasportatore, ha tutta una storia da ragazzino di rifiuto del mondo intellettuale. Rifiutava di studiare e faceva il giocatore di calcio. Era però sempre affascinato da donne di livello intellettuale superiore. E ha avuto una prima moglie che era intellettuale, che poi è morta. Ora ne ha una seconda. Se non che, la vera persona spirituale sul piano dell’essenzialità, è lui. Queste donne sono intellettuali, ma non spirituali. Io faccio una bella differenza tra chi vive la ricerca della verità come ricerca interiore, e chi vive invece soltanto a livello di cultura e conoscenza dello scibile. Lui si è sempre posto come identificato in questo io inferiore rispetto alla donna. Ha iniziato a lavorare con me e si è presto reso conto, viceversa, del contrario. Per cui la moglie leggeva i libri e ne parlava con l’amica e non con lui. A letto, la sera, si metteva di schiena a lui e leggeva il libro. Lui si è accorto che lei fuggiva il dialogo, la conversazione, ed ha incominciato a intervenire nel rapporto. Dopo di che, sono arrivati anche a litigare per questo, e lui ha chiuso l’analisi. Ha detto che si era dato dei punti di riferimento, se no non avrebbe potuto neanche sopravvivere, e ha detto che tornerà perché sente che bisogna, ma che per ora doveva sospendere perché non reggeva.
Quindi, di fronte alla protesta di lei …
Al rompersi del rapporto, ma non tanto solo questo, quanto il fatto che veniva messo in questione il ripetersi di questi ruoli.
E di fronte a questo lui ha preferito non uscirne.
Per lo meno ha sospeso. Se poi tornerà, non lo so. Ma lo ha detto esplicitamente, consapevolmente. Ha detto: In questo momento sono in crisi, perché non ce la faccio a mettere in questione questi punti fissi.
E’ anche sconvolgente una cosa del genere.
Certo, infatti non so quanto durerà. Eh sai, una volta che uno ha visto … Oh dio, si cerca di dimenticare tutto, ma …
Cerca di dimenticare tutto… ma è quello che si chiamava la rimozione?
No, perché non è inconsapevole. Qui si tratta di una negazione consapevole. Una repressione semmai, non una rimozione.
E nel tempo?
Certo, nel tempo ci si addormenta su. Diciamola così.
Qua però c’è in gioco un valore che la persona ritiene ineliminabile, che è quello della sicurezza per esempio. Sicurezza nei ruoli.
Ho capito!, va bene, soltanto perché c’è ancora questa visione di questa falsa sicurezza che viene dalla struttura del sistema, che in realtà può saltare da un momento all’altro. Che sicurezza è? La vera sicurezza è mettere i piedi per terra, ma i piedi per terra tu li metti quando li poni sul fondamento dell’Essere, non sul conto in banca. Il conto in banca ti salta via da un momento all’altro. Vedi il petrolio, che adesso … [ride di gusto] non dico lo Tsunami, ma anche il petrolio ti può far saltare il conto in banca e levare la terra sotto i piedi. Purtroppo, soprattutto nel novecento, si è instaurata sempre più questa cultura di tipo materialistico, per cui i punti di riferimento per la tua sopravvivenza sono quelli del sistema economico.
Se dovessimo leggere la vicenda di quest’uomo nel rapporto analitico, nell’ottica dell’interdipendenza e dell’intersoggettività, cosa potremmo dire?
L’interdipendenza è il rapporto che si stabilisce nel soddisfare reciprocamente le mutue aspettative, in cui c’è sempre chi si pone come soggetto conoscente e chi come oggetto di conoscenza dell’altro. Questo poi si snoda in tutte le sfumature. Chi dà e chi riceve sul piano della conoscenza, chi dà e chi riceve sul piano dei bisogni affettivi, o sul piano dei bisogni materiali. L’interdipendenza si crea sempre. Quest’uomo nella sua storia si è identificato nel ragazzino che non studiava, che non faceva niente e andava a giocare a pallone per rinnegare la dimensione della conoscenza. Al tempo stesso, in questo suo rinnegare la conoscenza, soddisfaceva l’aspettativa di coloro che lo conoscevano in questa maniera, come ad esempio sua nonna, che vedeva in lui il discolo. Quando si colloca un bambino nel ruolo del cattivo, quello non può che fare il cattivo, per soddisfare la tua aspettativa, perché lui viene riconosciuto ed amato come il cattivo. Allora, quest’uomo ormai aveva acquistato questa identità, di collocarsi, nei confronti soprattutto del femminile, in questa posizione. Questo aveva però una sua intenzionalità eversiva, perché lui in realtà rifiutava l’intellettualismo, in nome di una vita vera. E’ infatti una persona dotata di una capacità riflessiva enorme, di una sensibilità notevole nel cogliere certe profondità della vita. Era il rifiuto dell’intellettualismo ma, anziché elaborarlo e trovare un proprio modo di esprimere la propria libertà soggettiva e creativa, lui, con il mondo stesso, si è messo in questa posizione di interdipendenza: “Io sono quello che nega i valori intellettuali”. Il rapporto con le donne lo ha instaurato in questa maniera interdipendente: la moglie dice “Io so tutto di te, io ti conosco”, lei è quella che sa, lui è quello che non sa.
Ma lui, andandosene dal rapporto analitico con te, conferma ancora una volta questa interdipendenza?
E’ successo che lui ha avuto una litigata feroce con la moglie, che lo ha sconvolto totalmente, dopo di che si è voluto fermare.
Mi chiedevo cosa succedeva anche all’interno del rapporto che si viveva tra voi due.
Ah, io lo lascio libero.
Tu lo lasci libero e con questo tu recuperi la tua soggettività.
Io non l’ho mai perduta la mia soggettività.
Dico, nel senso che non entri così nel rapporto interdipendente, perché non ti senti costretta a trattenerlo.
Mai, mai, mai! Ma questo è sempre stato così per me, sin dall’inizio. Mai che io abbia voluto curare l’altro, che abbia voluto il benessere dell’altro. Io dico anche che si deve arrivare a distaccarsi dal desiderio che l’altro comprenda o non comprenda. L’atteggiamento che io ritengo giusto del cosiddetto analista è quello di dar voce alla voce, farsi testimone di una verità che lui vede, poi l’altro ne fa quello che vuole.
Tuttavia quest’uomo, da parte sua, interrompendo il dialogo ripropone anche in analisi l’atteggiamento che mantiene l’interdipendenza.
Perché? Se ne va, fatti suoi. Perché mantiene l’interdipendenza? Lui decide di andar via, di non affrontare questo lavoro.
Perché in fondo, facendo così, separa la situazione analitica -dove c’è una proposta che non fa sua, perché non rimane- dalla sua vita …
Certo, certo. Se quest’uomo ha capito sin dall’inizio che qui si spalancava una nuova dimensione … Infatti, perché ha litigato con la moglie? Proprio per evitare la separazione dell’analisi dalla vita. Io gli ho fatto vedere che va evitata la separazione: lui non può raccontare a me male della moglie, lo vada a dire alla moglie!
Certo, perché se no si creano anche in lui due luoghi separati …
Guai, guai! E allora lui, nel cercare di mettere in atto questo rapporto intersoggettivo con la moglie, ha creato la catastrofe. Dopo di che ha chiuso il lavoro analitico.
Allora in lui si dava ancora questa separazione degli ambiti della vita.
Tutti i pazienti che vengono in analisi fanno questa separazione, e invece noi dobbiamo evitare di farlo. Io sempre rimando alla situazione di vita reale, se no l’analisi diventa il pettegolezzo. Il pettegolezzo si dà quando due parlano di un terzo. E nell’analisi avviene sempre così.
Anche questa è una spia di rapporto interdipendente?
Certo, si.
Ma allora, se l’intersoggettività si desse solo in analisi, nel rapporto fra i due, questa sarebbe un’intersoggettività sino ad un certo punto. Se la persona che la vive non riesce a viverla a tutto campo …
Eh certo. Esatto, esatto! Se si dà solo in analisi, non serve a niente. Non è neanche un’intersoggettività, è falsa. Perché l’intersoggettività deve essere un modo di relazionarsi, e non implica soltanto una relazione particolare, tra me e te, tra tizio e caio. L’intersoggettività è una modalità di atteggiarsi nella relazione con il mondo intero. Anche nei confronti del tuo corpo, dell’evento, anche nei confronti del sasso contro cui tu sbatti il piede. Se tu cogli nell’altro una Presenza, un evento, che si fa soggetto attivo, che ti induce a riflettere, questo è un rapporto intersoggettivo.
Questo modo di intendere il rapporto intersoggettivo, ne “L’uno e l’altro” non era ancora così.
Pero se tu leggi, è già accennato: [legge] “Il primo bisogno del soggetto per essere tale è l’esistenza di un altro da sé. Molte sono le forme sotto le quali questo altro si fa presenza agli occhi dell’uomo: può essere, di volta in volta, il mondo esterno, ovvero il mondo delle cose e dei valori sociali, o il mondo interno, ovvero il mondo dei pensieri e degli affetti; può essere il Tu umano, l’altro dell’incontro, o il Tu interiore, l’altro cui l’uomo si riferisce quando è con se stesso; può essere la corporeità dell’uomo o i suoi comportamenti o i suoi modi di rapportarsi al mondo, nel momento in cui egli se ne distacca per riconoscerli e riferirli a sé; può essere infine l’uomo nella sua globalità, quando l’uomo stesso prende da se medesimo la distanza necessaria per definirsi in una identità. Ma comunque questo altro si costituisca, la sua funzione resta sempre quella di consentire all’uomo di riconoscersi come esistente” (pp. 74-75). E’ già detto qui, solo che la gente legge poche parole. E’ un discorso immane. Questo è il mio difetto, ma anche il mio modo di esprimermi, la mia essenzialità. In queste poche parole c’è tutto. Infatti dico: [continua a leggere] “Non è qui forse la radice del rapporto intersoggettivo che a me si rivela, quale possibile condizione felice dell’essere con nella reciprocità del dare e del ricevere, dell’agire e del patire, senza altri bisogni se non quello dell’esserci delle due presenze?” (pg. 75). Vedi? “Non è qui forse la radice”?
In questo senso l’analisi è il luogo dove si scopre e si impara il metodo.
Certo, perché l’altro come “tu umano” diventa l’altro soggetto che agisce su di te in quanto ti rende possibile attuare la tua soggettività. Per cui tu ti riconosci come soggetto al cospetto dell’altro soggetto. La libertà del soggetto [legge] “di compiere l’azione del riferire a sé l’esperienza esistenziale sia che egli l’agisca, sia che la patisca” (pg. 75). Tu mi parli, e io sono soggetto, anche nell’accogliere. Non sono soggetto solo nell’agire, ma anche nell’accogliere. Qui lo dice [legge]: “Questa libertà si colloca proprio nella disponibilità cosciente ai momenti della dialettica relazionale, in quanto solo se l’uomo è libero di dare il consenso all’atteggiamento attivo o all’atteggiamento passivo, nei confronti della stessa vicenda relazionale, può porsi in essa come Presenza, che a sé la riferisce per farne l’esperienza, e non smarrirvi dentro la propria identità” (pg. 75).Questa è la libertà. Io sono soggetto anche nel patire. Infatti, anche sintatticamente esistono i verbi passivi che hanno il soggetto.Vedi [legge nuovamente]: “Non è forse questa la libertà che sperimento, nel rapporto col paziente, quando esco dall’esclusività del ruolo cui l’altro mi costringe con la sua aspettativa? La libertà di agire e di patire, così come di volta in volta il momento dialogico mi rivela a me stessa, senza più la paura di deludere l’altro e distruggere così la relazione” (pg. 75).
Mi viene da pensare che è facile ricadere nell’altra modalità di relazione.
Mai sentirsi offesi, mai sentirsi aggrediti, già si è nell’interdipendenza, perché non sei mai nell’Io. Non sei né offeso né aggredito.
Però il primo moto è sempre questo, ogni volta ne devi prendere le distanze.
Eh si, perché l’io è nella struttura del Soggetto Riflessivo Individuale, che sa di sapere di sé come soggetto e dell’altro come oggetto. E quindi tu devi difendere la tua soggettività, pena cadere come oggetto del sapere dell’altro. Per cui meglio non parlare, sto zitto, se no chissà che cosa l’altro fa di me. La persecutorietà è la conseguenza sempre dell’Io come unico soggetto. Perché per l’io o sei soggetto o sei oggetto. Dato che il sistema è quello: il soggetto sa di sapere di sé e dell’altro da sé come oggetto. Che poi è la struttura del sistema di conoscenza dell’uomo.
Pensando alle analisi che possono essere considerate terminate, mi chiedo quanti raggiungono questo rapporto intersoggettivo.
Ogni volta l’intersoggettività è una modalità da raggiungere, perché il contesto -e non solo il contesto fuori di te ma anche quello dentro di te- ti ripropone costantemente la vecchia modalità interdipendente di relazione. Anche chi si sente liberato dalla dipendenza e dal giudizio altrui, ricade nella vecchia memoria. Perché? Perché l’identità è data dall’essere riconosciuto dall’altro e quindi dall’adeguarti all’aspettativa che l’altro ha di te. Quindi all’inizio liberarsi dal giudizio è vissuto come un non aver più bisogno di un riconoscimento da parte dell’altro per il tuo stesso esserci. Cosa pressoché impossibile, perché tu non ci sei se non sei riconosciuto. Solo che devi arrivare a riconoscere la tua identità in una dimensione superiore. Il discorso si allarga in tanti modi. Quando Giordano Bruno è stato condannato, secondo me non c’è stato giorno più bello della sua vita se non quello in cui è andato sul rogo. In quel momento [lo dice con enfasi, sospirando] lui entrava nella storia. Non è che perdeva l’identità perché il mondo circostante dell’epoca non lo riconosceva, perché lui era riconosciuto, e si sentiva riconosciuto -quindi aveva un’identità- nella storia. Non è che lo scrittore solitario misconosciuto dall’epoca in cui vive non ha un’identità. Lui si sente riconosciuto dal filum evolutivo del pensiero umano.
Quindi non si dà intersoggettività se i due non si aprono a questa dimensione che li trascende totalmente.
Certo. Fino a che non si realizza l’intersoggettività con dio … E’ solo quella l’unica intersoggettività che ti rende sicuro, ti garantisce e ti consente di sfidare anche l’abbandono dell’altro, pur di raggiungere la stessa intersoggettività. Tanto tu, solo non resti. Perché non puoi restare solo. Non esiste l’esser solo. Non ci sei da solo.
Pensando alla mia stessa esperienza … Se io dico che ho una ricerca e un atteggiamento intersoggettivo, ma che non vivo in realtà ancora delle relazioni intersoggettive, se non intuite … è possibile dire una cosa del genere?
Si, ma la cosa importante è comunque che tu trovi la tua intersoggettività con dio. In altre parole, a me può sputare in faccia il mondo intero … Io non crollo, perché io so di essere in relazione con la Presenza infinita.
Con la Presenza infinita si, ma tornando al discorso iniziale de “L’uno e l’altro”, quello da cui parte il rapporto analitico, ognuno di noi cerca di vivere questo rapporto intersoggettivo anche con l’altro del discorso. L’altro non trascendente, l’altro immanente.
Certo, ma io qui posso -dato che questo è un dialogo che abbraccia la nostra intera esistenza- dire: cosa mi ha consentito di leggere l’interdipendenza dal punto di vista dell’intersoggettività, e di rompere l’interdipendenza anche nella vita? Come tu sai, io sono del 1926, non mi sono mai sposata, ho sempre fatto scandalo e ho rotto con i vari modelli dati. Mi ricordo quando mi misi a far l’amore con l’operaio di mio padre che scatenò l’ira di dio, te l’ho pure raccontato no? Non ero degna del nome dei Montefoschi. Cos’è che mi ha consentito tutto questo? Avere già un rapporto intersoggettivo, se no non avrei potuto.
Intendi quello trascendente?
La mia esperienza mistica dell’adolescenza. Il mio aver vissuto fortemente nell’adolescenza il rapporto con il divino, che poi era l’immagine di Gesù, del Cristo. Che poi si chiamasse Cristo, che fosse la lettura di Giovanni, che fosse Giovanni, che fosse Dio, era tutt’uno. Era colui che è. E che mi ha accompagnato tutta la vita. Io ho avuto tanti amanti, ma il mio amante vero è sempre stato Lui. Io riferivo a Lui, non è che non amassi, io amavo molto, totalmente, il mio compagno …
Ma vedendo in lui la presenza di Lui con la elle maiuscola.
Certo. Quindi è molto importante l’esperienza religiosa, che poi “religioso” non è altro dalla vita, è cogliere il senso vero [con enfasi] del divino.
Riporre la propria Presenza nel Tutto è l’unico modo per vivere l’intersoggettività. Nel senso che poi, per quanto si debba avere a che fare con la propria identità intesa in senso immanente e limitato, anche questa identità immanente perde d’importanza.
Si, la tua identità è eterna, è storica, se non vogliamo usare la parola eterna. L’identità contingente no.
Quella si può ogni volta lasciare.
Certo, certo, ti crolla addosso come la muta del serpente. Non ti importa niente, ti va via.
E questo è quello che avviene anche nel rapporto analitico. Si può uscire da questo rapporto soggetto-oggetto, che poi è l’interdipendenza, solo nel momento in cui, costantemente, ci si riconosce come soggetti nella Presenza del Tutto.
E infatti, vedi, il tutto va riletto dagli ultimi miei libri. Io consiglio sempre di iniziare dagli ultimi libri, perché i primi sono compresi in essi come le matrioske: alla luce del punto di arrivo, si rilegge tutto in una maniera diversa.
BIBLIOGRAFIA
- Montefoschi s.(1977) “L’uno e l’altro. Interdipendenza e intersoggettività nel rapporto psicoanalitico” in “Opere” vol. 2, tomo 1, pp. 57-192.
- Montefoschi s.(1977) “Al di là del tabù dell’incesto” in “Opere” vol. 2, tomo 1, pp. 449-610.
- Montefoschi s.(2006) “Opere” vol. 3.