L’autrice del libro “Psicologia contemplativa”, Karen Kissel Wegela, insegna psicologia alla Naropa University di Boulder in Colorado dove tiene corsi di specializzazione in psicoterapia contemplativa.
Ecco, dunque, il libro, il cui titolo aveva catturato il mio sguardo, sembrava promettermi una risposta alla domanda che, più di altre, negli ultimi anni più, mi si è imposta : quale sia il rapporto tra “Psicologia intersoggettiva evolutiva” e “Meditazione”.
Durante l’estate ho letto.
Leggere, per chi ama la lettura, è attività che, come la cura personale, come le faccende domestiche o l’attività lavorativa, cadenza in assoluta normalità la quotidianità personale.
Quest’estate, dunque, ho letto come d’abitudine; ma mi sono voluta permettere un po’ più di svago, nella lettura, e, soprattutto, mi sono voluta permettere di sconfinare in ambiti interessanti, ma a me meno noti, mi sono voluta permettere degli “sconfinamenti”.
E’ stato così che, vagando con lo sguardo, serendipicamente, sugli scaffali ed i ripiani della libreria Aleph di Piazza Lima a Milano, ed imbattutami nel libro di Karen Kissel Wegela intitolato “La terapia contemplativa”, Ubaldini Editore – Roma, ne ho scorso velocemente alcune pagine e i contenuti proposti sulle alette della copertina; l’ho acquistato e poi, una volta a casa, me ne sono ritrovata presa e l’ho letto integralmente e velocemente, in preda ad una crisi di bulimia intellettuale.
L’autrice del libro. Karen Kissel Wegela insegna psicologia alla Naropa University di Boulder in Colorado dove tiene corsi di specializzazione in psicoterapia contemplativa. E’ autrice di due libri: “How to Be a Help instead of a Nuisance: Practical Approaches to Giving Support, Support, Service and Encouragement to Others” e “What Really Helps: Using Mindfulness and Compassionate presence to Help, Support, and Encouragement Others”.
E’ autrice anche di numerosi articoli.
Di questa autrice, al momento dell’acquisto del volume, non avevo ancora letto nulla; ma il titolo, con quel suo coniugare il concetto di terapia con quello di contemplazione, mi aveva proprio attirata.
Quel titolo sembrava promettermi un aiuto, preludere a chiarimenti, garantirmi risposte.
A che?
Prima di rispondere, sento di dover fare una piccola premessa, ovvero di dover precisare che da tempo mi interesso di meditazione e la pratico. E’ questo un interesse ed una curiosità che mi hanno portata negli anni a seguire dei corsi, fare letture; a osservarmi e riflettere su ciò che andavo sperimentando, ad osservare e riflettere anche su ciò che avevo l’opportunità di osservare in altri, curiosi ed anch’essi “sperimentatori” negli stessi ambiti o in ambiti molti vicini a quelli meditativi.
Ecco, dunque, il libro, il cui titolo aveva catturato il mio sguardo, sembrava promettermi una risposta alla domanda che, più di altre, negli ultimi anni più, mi si è imposta : quale sia il rapporto tra “Psicologia intersoggettiva evolutiva” e “Meditazione”.
Domanda che, perentoriamente e non senza qualche disagio, man mano che ero andata svolgendo il mio lavoro di terapeuta ed avevo, al contempo, portato avanti la mia pratica meditativa, come fossi pervenuta ad un crocevia e mi sentissi confusa sul seguito del cammino, mi aveva indotta ad esplorare gli ambiti di entrambe e delle rispettive aree e ad approfondirne la conoscenza attraverso possibili contatti e caute letture che, tuttavia, non mi avevano condotto ad una soluzione del problema, quanto, casomai, alla percezione di un mare magnum di questioni e complicazioni.
Dunque, quel titolo mi intrigava, perché mi faceva sperare.
Di essere ad un passo dalla “chiarezza”.
In particolare mi ritrovavo a voler ben cogliere che cosa potesse differenziare o potessero avere in comune la “Psicologia Intersoggettiva Evolutiva” e la “Psicologia Contemplativa” e, poi, che cosa differenziasse un Paziente da un Cliente, da un Soggetto o da un soggetto – a volte una maiuscola o una minuscola fanno proprio una gran differenza – o da un Soggetto Riflessivo, (Individuale, Super-Individuale) e/o da un Soggetto Riflessivo Intersoggettivo.*
In effetti, questa lettura e le domande ad essa correlate venivano, cronologicamente, un po’ dopo la lettura del testo di P. Cozzaglio, intitolato “Psichiatria intersoggettiva – dalla cura del soggetto al soggetto della cura”, Ed. Franco Angeli, ma anche di un altro testo sempre dello Stesso, ma anche di Mimma Cutrale, che mi aveva vivamente interessata, intitolato “Il pensiero amato – Intervista a Silvia Montefoschi”, della Zephyro Edizioni.
Era stato soprattutto quest’ultimo, a dire il vero letto per primo, che aveva aperto la mia mente, già pervasa dal dubbio, al bisogno-desiderio di capire di più e meglio e all’ipotesi che fosse possibile comporre in armonia le tessere che ero andata raccogliendo nel mio cammino di studio e, soprattutto interiore, negli ultimi, ormai non pochi anni, di mia ricerca personale, su come “illuminarsi” ed “illuminare”.
(Qui pongo le questioni per un confronto con Colleghi ed Altri che fossero interessati … sentendomi umilmente e solo in cammino).
Dal testo sulla Montefoschi avevo tratto la sensazione ch’Ella avesse potuto accedere a stati di coscienza “diversi” e che in virtù di tali esperienze avesse ben chiaro quale fosse il ruolo del corpo e delle sensazioni che in esso si possono sperimentare ed che Ella, attraverso le sue opere ed il suo operare, anche all’ultimo con l’intervista, avesse inteso renderne atto.
Ora non è questa la sede per riprendere passaggi cruciali ed importantissimi del pensiero di questa Autrice come quello di coscienza adamica, coscienza cristica e coscienza giovannea, possiamo, però, certamente, invitare chi fosse interessato, ad attingere direttamente alla fonte, o almeno a recepire quasi la provocatorietà di alcune frasi da Lei pronunciate nell’intervista rilasciata non molto tempo prima della sua morte a Paolo Cozzaglio e a Mimma Cutrale e riportate nel testo di cui sopra di questi autori.
Ne voglio riportare almeno una : “… Mi ricordo che entravo in queste estasi – chiamiamole così – in cui …”. (Opera cit. pag. 51), giusto a dire che le letture che si sono susseguite nella mia estate non erano un mero assemblaggio caotico di cose e questioni astruse; ma, quasi a me inconsapevolmente, i contenuti in esse riportati sono andati fornendomi il materiale di cui avevo bisogno per nutrire la mia curiosità e per offrirmi una certa pacata quiete psico-lavorativa nell’ approccio clinico.
Silvia Montefoschi aveva dimestichezza con stati di coscienza diciamo non propriamente e banalmente di solo veglia o sonno, e, oseremmo dire, aveva avuto accesso e sperimentato comprensioni “diverse”, che pensiamo accostabili per loro natura a quegli eventi che caratterizzano le esperienze meditative.
Durante l’estate, così, cammin facendo, di lettura in lettura pervenuta dunque al testo di Karen Kissel Wegela, mi sono ritrovata di fronte ad una autrice che con assoluta tranquillità d’animo, di concetto e di spirito, nella sua opera dichiara come Ella ponga al centro della propria visione della psicoterapia il concetto di sanità naturale del Paziente, ossia l’idea che in tutti gli esseri umani esista, permanente ed incontaminato, uno stato originario di sanità mentale ( per quanto oscurato esso possa essere dalle vicende psicopatologiche dell’individuo) e l’idea che su di esso possa fare leva l’azione terapeutica, cercando di liberare la via dagli ostacoli che impediscono al Paziente di sperimentare quello stato mentale originario presente comunque in lui.
La Wegela non scrive certamente un libro sull’intersoggettività, ma le riflessioni ed i concetti che in esso elabora, chiaramente nascono dalla visione di una interdipendenza di tutti gli esseri e di tutti i fenomeni, e con la sua opera ci apre e predispone all’intersoggettività, ce la fa apparire cosa preziosissima ed imprescindibile nel nostro lavoro, sempre e comunque; ce la addita come nostro obiettivo e propone come nostro metodo.
Per maggior chiarezza: la psicoterapia contemplativa di cui la Nostra ci parla non vuol essere la Psicoterapia intersoggettiva Evolutiva, ma ne può essere – per me lo è – il presupposto o il facilitatore; essa coniuga gli insegnamenti buddhisti con la formazione in psicoterapia.
Di base, ne è il presupposto, mostrandoci che noi non siamo ciò che crediamo di essere e sempre ricordandoci il primato dell’esperienza emozionale-affettiva rispetto a quella concettuale… come in psicoterapia…
Mi piace anche osservare come l’ approccio della Wegela ci riproponga anche un “luogo” caro ad ogni psicoterapeuta o analista, il “luogo” dell’ispirazione e aspirazione terapeutica stessa: quello della cura e del suo modello primo, ovvero della madre (o chi per lei) che ha prodigato le necessarie cure al Paziente quand’egli era bambino.
Mi piace anche osservare che questo approccio radica nella convinzione che ogni persona vuole essere, e potenzialmente è, solo una persona per bene.
A noi terapeuti si rivolge chi si è per essersi smarrito (il Paziente si rivolge a noi quando vive un periodo di transizione; quando entra in crisi l’idea che si è fatto di sé e, a causa dell’una o dell’altra questione, è in sofferenza) e chi desidera ritrovarsi, rinvenire nella sua persona l’innata qualità d’eccellenza di “essere umano” che appartiene alla nostra natura e quindi ad ognuno e, dunque, anche a lui.
Secondo questo approccio, ci è dato di osservare come, e lo possiamo intuire e nella clinica verificare, il Paziente tenda a conservare in una caparbietà tanto cocciuta quanto inconsapevole, una definizione di sé che non è più sostenibile; come il suo “ Io” la voglia sempre fare da padrone!
Questa visione “statica” di sé che l’Io impone all’individuo può essere per lui una galera, ma – dice la Wegela – al contempo nella clinica a noi è possibile osservare come nel Paziente un piccolo cambiamento, un semplice comportamento sostitutivo divenga preludio ad un mutamento fondamentale, evolutivo ed epocale per lui, e come tal evento, per effetto dell’interdipendenza, quasi allargandosi a macchia d’olio, riesca ad indurre un miglioramento generale e ad ampio spettro su molte altre aree, nel contatto.
Tutto questo è più semplice e possibile – dice la Wegela – se combiniamo l’attimo presente e l’esperienza diretta: ci poniamo in autosservazione nell’hic et nunc, riservando alla “riflessione concettuale” solo un tempo successivo a quello della “riflessione sensoriale” o meditativa.
Non lasciamoci al momento trarre in inganno dalle parole – pare suggerirci la Nostra – perché la riflessione concettuale è già espressione in concetti di un vissuto prima esperito nel corpo e nella mente osservativa come un divenire in noi che, cosa curiosa, in fondo da noi, come individui capaci di intenzione e volontà, perfino prescinde.
Percorriamo, per una brevissima sintesi, il testo della Wegela e recepiamo che, a partire da questa metodica e da ciò che ci permette di acclarare su di noi, si apre un mondo nuovo, una visione diversa – alcuni dicono meravigliosa – davanti al Paziente ed al Terapeuta, il cammino della terapia.
Essa, come ogni viaggio, ha un inizio, una metà ed una fine.
Inizialmente porremo attenzione a costruire la fiducia, evitando interventi prematuri e dosando l’intensità del contatto col dolore, incoraggiando ad accogliere l’esperienza della vita con curiosità e a non temere il vuoto celato dalle false convinzioni su di noi sorrette dall’ingannevolezza dell’Io.
Dietro l’ingannevolezza dell’Io e la vacuità che cela, c’è in vero – come aveva detto anche Salomon Friederland già prima, quando parlava di Indifferenza Creativa – la nostra capacità creativa!
Seppure queste parole non vengano usate dalla Wegela, mi pare opportuno evidenziare l’importanza che, in tale modello di approccio al Paziente, possa avere il ricorso, raccomandato, all’empatia e, per quel che concerne l’interpretazione, il suggerimento a farne un uso pervaso da sensibile ed umana attenzione.
La Nostra Autrice , procedendo nell’illustrazione del suo pensiero, ci sollecita ad avvalerci di quello che nell’area buddista, e dunque del suo insegnamento, è il “sesto senso” ovvero la mente che è attenta ed è in grado di essere consapevole delle sensazioni che proviamo e delle attività mentali che ci riguardano come: pensieri, ricordi, fantasie, immagini, ecc.
Ella non manca di osservare che ciò che promuoviamo ed auspichiamo per il nostro Pz, riguarda anche noi ; ci insegna a cominciare da noi stessi!
Ci sollecita all’autenticità e ci chiarisce che cosa sia lo scambio, invitandoci a tollerarlo e a farne un utile uso terapeutico. Quest’ultimo non è – ci precisa – l’immaginare il vissuto del Paziente; è qualcosa che proviamo direttamente quando siamo in sua presenza; altri autori ci parlerebbero, penso, di identificazione proiettiva; a me pare che la Nostra ci ricordi con questo concetto dello scambio, sempre quanto sia ricca la nostra natura e ci sprona a farne esperienza e generoso ed umano uso.
Ci invita a vedere le opportunità terapeutiche che si danno, celate, nei vissuti che abitualmente rifuggiamo: l’incertezza, il non sapere, il dolore, o/e sperimentiamo nelle esperienze di disgusto e dubbio, di goffaggine, in quelle che hanno il sapore stucchevole delle sdolcinatezze e del sentimentalismo, o, ancor peggio, quando ci sentiamo preda della stupidità: in fondo (ricordiamo Bion),ognuno di questi vissuti ha a che fare col non sapere in anticipo cosa fare, cioè con il miglior assetto possibile per un lavoro clinico creativo, sentito, ed in sintonia con il Paziente; un lavoro clinico in cui Paziente e Terapeuta siano soggetto, l’uno di fronte all’altro, entrambi soggetto, accomunati nella ricerca di senso e nel rinvenimento condiviso di aperture di senso.
Poiché questo modo di porsi del Terapeuta nasce da un atteggiamento meditativo e lo “avvicina” al Paziente, in una sana modalità relazionale, pensiamo che esso possa essere proficuamente adottata da chi voglia approcciarsi al Paziente in una logica clinica a pieno titolo “intersoggettiva”; ne possa essere utile facilitatore e – non osiamo dirlo, ma lo pensiamo – imprescindibile presupposto.
Laura Zecchillo
*Rimando chi volesse approfondire questi concetti e definizioni al libro di Paolo Cozzaglio, “Psichiatria intersoggettiva. Dalla cura del soggetto al soggetto della cura”, pubblicato da Franco Angeli.