Parlare di spazi, luoghi, significa parlare di un bisogno insito nell’essere umano che è quello di un ambito di demarcazione, perché è un bisogno dell’uomo mettere i confini che distinguano le componenti della realtà. Questo discorso sul confine, sul limite, è così importante perché ha la funzione di mantenere l’integrità del soggetto. Dove noi stiamo lo spazio risponde, fa da riferimento e da sfondo, e ci dà l’immagine dell’insieme della relazione.
Parlare di spazi, luoghi, significa parlare di un bisogno insito nell’essere umano che è quello di un ambito di demarcazione, perché è un bisogno dell’uomo mettere i confini che distinguano le componenti della realtà. Ne abbiamo bisogno a tal punto che anche quando questo confine fisicamente non c’è siamo orientati a percepirlo ugualmente, lo possiamo vedere nella tendenza a chiudere figure aperte, nella separazione che operiamo tra la figura e lo sfondo, ma anche nella relazione tra soggetto e oggetto, coscienza e inconscio, ecc.
Nello stesso tempo, c’è un aspetto in questo tema dello spazio che può apparire quasi un paradosso: che l’essere umano nella sua individuazione, cioè nello scoprire chi è (e per scoprire chi si è lo si può fare solo rispecchiandosi e riconoscendosi nell’altro), deve invece operare una separazione, una distinzione dall’altro, dalla relazione stessa, e questo può realizzarsi proprio grazie alla percezione dei propri confini. Confini primariamente corporei, che poi il soggetto umano potrà transitare per confrontarsi con la diversità, per relazionarsi con la realtà tutta, e questo è il senso di evolutività che abita lo spazio inscindibile dal tempo. Infatti, lo spazio nella sua valenza simbolica cambia in modo evolutivo, cioè cambia la percezione dei propri confini/spazi lungo l’arco della vita e della consapevolezza.
Quando parliamo di spazio, in prima istanza è sempre corporeo: nel senso che è il corpo che stabilisce le coordinate, le direzioni, la vicinanza e la lontananza; è il corpo che fonda le dimensioni e l’ordine dello spazio; è il corpo da cui nascono e si dipartono le relazioni spaziali.
E’ intuibile che lo spazio – che potremmo definire personale, perché individuale – non è statico ma è influenzato da numerose variabili; tra queste ci sono l’età, il genere, la personalità, la cultura.
Con l’età lo spazio muta: c’è la tendenza ad aumentare l’ampiezza del proprio spazio con l’avanzare degli anni.
Riguardo il genere, c’è una diversità tra le persone di sesso maschile che manifestano una maggiore ampiezza dello spazio personale, soprattutto se interagiscono con persone del proprio sesso; la distanza tende a ridursi invece quando coinvolge persone dell’altro sesso, diventando addirittura inferiore rispetto a quella mantenuta tra persone di sesso femminile.
La personalità identifica spontaneamente spazi che gli sono propri: ad esempio esiste una relazione tra il grado di introversione nelle relazioni e la distanza fisica dall’altro.
La cultura incide profondamento nella definizione degli spazi. Il comportamento spaziale dell’uomo risulta fortemente condizionato dal mondo delle idee, delle credenze e dei significati che caratterizzano una specifica cultura.
Lo spazio personale varia anche secondo i contesti e i tempi e per questo assume valenze diverse: possiamo osservare una “chiusura” dagli spazi altrui per trovare un’intimità di un proprio spazio (pensiamo alle persone “costrette” a stare sempre in spazi collettivi), e “un’apertura” agli spazi altrui per ricercare una condivisione o un’uniformità (pensiamo a quanto avviene nel periodo adolescenziale).
Il primo spazio personale è la PELLE, confine tra organismo e ambiente, terra di frontiera tra corpo e psiche e, allo stesso tempo, elemento fondamentale del contatto sensibile con il mondo senza il quale l’uomo non sarebbe in grado di sopravvivere. La pelle è luogo di espressione e di senso, non scindibile dal mondo che la circonda e all’interno del quale muta in continuazione. La pelle è veicolo del contatto quanto quello della separazione, sistema di protezione della nostra individualità e contemporaneamente primo strumento e luogo di scambio con gli altri. Per essa tocchiamo e siamo toccati, percepiamo e siamo percepiti, definiamo il nostro spazio e siamo definiti nello spazio; è nel contatto pelle-pelle che prende origine il processo di delimitazione psichica. Per questo si può considerare la pelle come rappresentazione dell’Io, perché la pelle contribuisce a creare il sé corporeo di ogni individuo.
Didier Anzieu ha coniato il termine IO-PELLE, cioè quella realtà e struttura psichica dove si sviluppano i confini dell’Io che delimitano il “me” dal “non me”, quell’organo sensoriale che discrimina ciò che è reale da ciò che è irreale e fantasmatico. L’organo in cui il nostro io-corpo comincia, ovvero finisce, consente all’individuo di percepirsi come essere distinto e delimitato. Contribuisce a determinare la consapevolezza di sé stessi (individualità) attraverso la consapevolezza del corpo.
Lo spazio personale – l’Io-Pelle – si sviluppa, evolve lungo l’arco della nostra vita e della consapevolezza: all’origine della vita il feto, nell’utero, vive un Io-corporeo come spazio non separato e differenziato, non percependo i limiti tra interno ed esterno. Lo stato che vive l’essere umano come feto è di completezza, fusionalità diffusa, per arrivare alla nascita con la perdita di questa globalità fusionale (è la madre a quel punto che funge da pelle psichica per il neonato) che però non assicura ancora la separazione dell’Io dal non-Io, ma mette in atto la ricerca dell’altro per colmare questa mancanza.
È la ricerca del corpo dell’altro e, successivamente, col graduale passaggio che porta alla distinzione tra la propria pelle psichica da quella materna, c’è la “nascita” del senso di identità: la consapevolezza di essere DUE, che rende possibile essere UNO per individuarsi, che si esprime con l’essere capaci di stare soli; la demarcazione tra il “me e il non-me”, dove il soggetto (bambino) si confronta per la prima volta con la diversità, che diventa la ricerca di spazio comune d’azione e di “comunicazione”, e questo avviene con l’esperienza e lo sviluppo.
Successivamente l’Io-pelle diventa veicolo di conoscenza: la visione del mondo che noi ci costruiamo man mano nasce da questo continuo dare forme, limiti e differenze alle cose che ci circondano. e questi strumenti conoscitivi che si evolvono durante l’arco della nostra vita incidono sulla percezione di noi stessi. Il rapporto – l’interazione tra corpo e spazio – fonda la conoscenza dell’IO corporeo, cioè lo spazio fa sì che il soggetto attui la sua prima identificazione.
Riporto la descrizione di un’ esperienza corporea pratica che ho chiamato “vissuto dei confini” al fine di evidenziare il discorso dello spazio tra adulti, ponendo l’attenzione sullo spazio personale, articolato in confini e vedendo la relazione interpersonale che si dà nella percezione di questi confini. Ma un aspetto nuovo è quello dato nella relazione dal TERZO che vedremo come si manifesta e che funzione ha. Partiamo dalle consegne:
– A coppie: un soggetto ricerca un suo spazio personale che definisce e descrive con la comunicazione non verbale. Una volta descritto si pone al centro del suo spazio. L’altro osserva.
– Chi ha osservato ridefinisce sempre con la comunicazione non verbale i confini dello spazio osservato secondo la sua comprensione . Una volta ridefiniti si allontana
– Ora si riavvicina allo spazio dell’altro per entrarvi, lentamente senza invadenza
– L’altro lo accoglie e insieme trovano uno spazio comune.
Proviamo a leggere questa esperienza in modo simbolico:
Lo spazio è personale, dipende dal soggetto ma anche dal contesto e dal momento, e protegge (infatti bisogna entrare, penetrare questo spazio ); i confini non possono essere sempre definiti chiaramente (perché dipende dalla percezione che si ha di sé, per cui per l’altro può diventare difficile comprenderli ) e ci può essere una con-fusione; come è personale lo spazio è personale anche la modalità di accogliere l’altro nel proprio spazio; come personali sono le modalità di entrata nello spazio altrui. Ma ecco il nuovo aspetto che può entrare nella relazione: il TERZO cioè quello spazio nuovo, diverso e nello stesso tempo riconoscibile dai due. Il terzo è lo spazio ALTRO: uno spazio comune che non è l’adattarsi all’altro. Questo terzo spazio ci può far vivere una relazione diversamente nuova che è quella che noi chiamiamo intersoggettiva.
Nel nostro lavoro relazionale, terapeutico, incontriamo situazioni in cui la percezione del proprio spazio personale è alterata: nella realtà, soprattutto quella relazionale, non è sufficiente tratteggiare un confine per vederlo e sentirlo. È l’incontro con tutte quelle persone (pazienti, utenti) che soffrono di una mancanza di confini e delle delimitazioni del proprio essere, perché cresciuti nell’ambiguità di ruoli (o addirittura in un ambiente abusante) come se, per usare ancora l’immagine dell’involucro, sentissero il rischio di vederlo perforare e percepissero la conseguente angoscia di svuotamento. Sono le personalità borderline e le personalità narcisistiche, dove c’è una continua incertezza nelle frontiere tra “Io psichico” e “Io corporeo”, tra ciò che dipende da sé stessi e ciò che dipende dagli altri. Le continue e brusche fluttuazioni di tali frontiere portano a un’indifferenziazione persino delle parti corporee, nella confusione tra esperienze piacevoli e dolorose, come una pelle sottile che crea talmente ipersensibilità che è facilissimo ferire. Oppure quelle persone dove la pelle è talmente spessa che fa diventare insensibili ai sentimenti più profondi, quasi indifferenti all’alterità, con la ricerca della continua dimostrazione di bastare a sé stessi per darsi l’illusione di invulnerabilità e di immortalità, di non volere una pelle comune con l’altro che possa provocare qualsiasi dipendenza, una pelle che manca di elasticità e che la minima ferita narcisistica può strappare: sono le personalità narcisistiche.
Sono entrambi esempi di modi di essere confusivi, indistinti, alla ricerca di una somiglianza con l’altro, con un vissuto continuo di relazione mancata: sentire una continua distanza a cominciare da sé stessi e di conseguenza anche con l’altro, distanza che a volte diventa insopportabile e provoca reazioni esasperatamente depressive o aggressive.
Questo discorso sul confine, sul limite, è così importante perché ha la funzione di mantenere l’integrità del soggetto. Dove noi stiamo lo spazio risponde, fa da riferimento e da sfondo, e ci dà l’immagine dell’insieme della relazione.
Nel nostro lavoro di analisi (psicoterapia di relazione) i confini dell’analista diventano necessari perché sono punti di riferimento per il riconoscimento dell’esistenza dell’altro e definiscono i parametri della relazione analitica stessa, cosicché sia il paziente sia l’analista possono sentirsi al sicuro, per poter aprirsi al nuovo (al TERZO), per dialogare con l’alterità, senza andare in con-fusione.
Questo permette all’analista e al paziente di avere la possibilità e la libertà di attraversare questi confini psicologicamente, come se si costituisse una nuova membrana semipermeabile.
Con confini personali eccessivamente labili si rischia di essere inclini a confondere le proprie esperienze interne con quelle del paziente/utente; con confini eccessivamente spessi si rischia di essere incapaci di accogliere le comunicazioni inconsce dell’altro.
Allora il setting, quale luogo dei confini, può diventare quell’ involucro che ha funzioni trasformative. È un luogo “dentro” separato dal “fuori”(distingue il dentro dal fuori, circoscrivendo uno spazio e un tempo con confini ben delimitati) affinché si creino le condizioni di un nuovo dentro/fuori; è uno spazio nuovo (TERZO) dove si integra lo spazio personale dei due soggetti per iniziare un processo (lo spazio inscindibile dal tempo).
Mi riferisco anche ad altri tipi di setting oltre a quello analitico, non solo duale ma anche di gruppo. Le terapie di gruppo, le situazioni gruppali nella scuola, dove le frontiere e i confini permettono al soggetto nel gruppo di dirsi ed essere ascoltato, di mostrarsi ed essere osservato, di farsi attraversare dagli altri e attraversare gli altri (entrare nello spazio e accogliere l’altro come nel vissuto dei confini prima descritto). I confini diventano permeabili e non più rigide strutture protettive, la matrice diviene condivisa e condivisibile.
L’esperienza col gruppo fa da ponte, da collegamento tra la realtà che il singolo vive e concepisce e la realtà esterna che condivide in termini di confine: io ci sono e mi differenzio dagli altri che mi riconoscono, senza il rischio di esserne fagocitato.
Solo conoscendo i propri spazi, i propri confini, diventa possibile e perciò effettiva una relazione con l’altro, che noi chiamiamo intersoggettiva, perché permette di vedere l’Altro e vederlo come soggetto e riconoscersi come soggetto.
Potremmo vedere lo sviluppo dei confini nel soggetto in questo modo: quando dico “IO SONO” i confini si irrigidiscono, devo separarmi dall’altro; quando dico “IO CI SONO” i confini diventano più flessibili, mi apro all’altro; quando dico nella relazione “IO SONO ME e TU SEI ME ma IO SONO sempre IO e TU SEI sempre TU, i confini si transitano mantenendoli.
Mimma Cutrale