Silvia Montefoschi è nata a Roma nel 1926.

Ha iniziato col coltivare studi classici e filosofici per poi iscriversi a Biologia, onde potere conoscere meglio la vita degli organismi viventi nonché la natura nella sua complessità.Ha sempre amato la natura e con la natura ha amato quello che viene considerato il suo artefice: Dio.

Il rapporto con Dio è stato in lei costantemente presente. Già all’età di nove anni aveva fatto un sogno, nel quale interloquiva con Gesù e all’età di tredici ne aveva fatto un altro, dove Gesù le suggeriva di come indirizzare la sua nascente tensione erotica e precisamente le additava di dovere compiere il passaggio dalla madre terra, in cui ogni donna si incarna “nell’offerta immediata di se stessa che l’amore le chiede”, alla madre spirituale,                               “che dà l’amore mediante la parola che l’amore stesso produce”.                                          Più in là, come ci racconta nel suo “il vivente” (ed. Laboratorio Ricerche Evolutive, Genova  1989), ebbe una visione in cui sentì la propria mano come guidata a prendere il “Nuovo Testamento” e ad aprire il “Vangelo di Giovanni”, in cui era lo stesso Giovanni a dirle che “colui che amavo e che mi amava, era il Gesù crocifisso che mi chiedeva la mia crocifissione per la redenzione sua e dell’intera umanità ”.

Allora  “non comprendevo ancora  cosa  Egli intendesse per la mia crocifissione ”.

Conseguita la laurea in Biologia intraprese a lavorare nella ricerca scientifica all’Università di Napoli,  precisamente nel campo della Genetica.Più progrediva negli studi, più scopriva “la grandiosa armonia dell’universo” e questa armonia per Silvia Montefoschi era Dio.In contemporanea veniva ad esserle sempre più chiaro che la conoscenza di Dio non poteva avvenire solo nel suo aspetto esterno, ossia fuori di sé stessa “al di fuori di me e come altro  da me” ma anche  nella sua interiorità, ossia dentro di lei, in quanto solo all’interno di sè avrebbe compreso meglio Dio. Inoltre capì che affinché tutto questo fosse possibile doveva  conoscere meglio il proprio mondo interiore e sapendo della psicoanalisi, come metodo conoscitivo del nostro mondo interiore,  non poteva che rivolgersi ad essa. Prese così appuntamento, in uno dei suoi rientri romani, con Ernst Bernhard, colui che aveva introdotto la psicologia analitica in Italia.

Bernhard si era a sua volta formato prima alla scuola freudiana avendo lavorato con Fenichel e con Rado, poi alla scuola junghiana avendo fatto analisi con lo stesso Jung. Bernhard era anche un profondo studioso di scienze dello spirito, così la sua spiritualità venne ad incontrarsi con la spiritualità di Silvia Montefoschi e ne nacque una profonda collaborazione lavorativa, che avviò la Montefoschi alla professione d’analista. In seguito  su consiglio di Bernhard si  trasferì a Milano per portarvi, insieme a Fabio Minozzi, il pensiero junghiano. Qui, per ampliare ed approfondire la conoscenza dell’essere umano e secondo la consuetudine dell’epoca, si iscrisse a Medicina e ne conseguì la laurea.

Silvia Montefoschi nel corso del suo lavoro analitico si rese conto dell’estrema importanza del relazionarsi con   l’altro e comprese che è proprio nella relazione  che il soggetto si riconosce come tale. Questo avviene solo dopo che egli ha superato la “bisognosità”. Inoltre il soggetto non essendo più dipendente dal terapeuta, libera il terapeuta stesso dalla dipendenza; infatti il terapeuta, finchè soddisfaceva la bisognosità-dipendenza del paziente, rimaneva impigliato egli stesso nella dipendenza: si era cioè nell’interdipendenza. Superata questa non si è più  costretti a dipendere l’uno dall’altro e solo così ci si può riconoscere “soggetti” e viversi come tali nella propria autonomia. A questo punto si è passati all’intersoggettività.

Questo è potuto avvenire in quanto si è fatto uso della “funzione riflessiva”, che ha permesso al soggetto di agire come tale e di operare da “soggetto pensante”, e così agendo, si è venuto egli a collocare al di sopra della coscienza stessa  e a riconoscere alla coscienza di essere il “luogo dove i vissuti inconsci prendono coscienza di se stessi”.

Silvia Montefoschi fa poi vedere come questo metodo permette all’uomo di farsi uomo, in quanto non aderendo con immediatezza alla propria esistenza  “prende distanza dalla stessa  per farne conoscenza e riporre in questa conoscenza la propria identità”. Si comprende così come  “la psicoanalisi, proprio nell’analizzare le dinamiche affettive relazionali in cui la psiche appunto consiste e nel trasformarle così da vissuti immediati in conoscenze degli stessi, era la consapevolizzazione del processo di umanizzazione ”.

Nel corso del suo lavoro vide anche e sempre con maggiore evidenza, che i messaggi, che emergevano dall’inconscio per arrivare alla coscienza,  non riguardavano più tanto il passato quanto “accennavano piuttosto a un salto che in qualche modo si doveva fare”: così  l’uomo veniva ad essere  “il punto d’arrivo del processo conoscitivo dell’Essere”. Tale pensiero conoscitivo, che si viene a cogliere sempre più a partire da Freud  nella dimensione personale del soggetto umano  e da Jung nella dimensione collettiva del genere umano, arriva alla “Coscienza dell’intero universo” ma “non ancora consapevole di sé come coscienza ” e questo per la visione tuttora prevalentemente maschile  del mondo, visione quindi non a 360°.

A questo punto necessita che intervenga anche una modalità femminile  e ciò è possibile solo andando al di là del tabù dell’incesto:  così  si potranno ricongiungere conoscente e conosciuto, soggetto e oggetto, maschile e femminile, padre e figlio, Verbo e Dio,  “esseri duali”, che  “ricongiunti”  si possono riconoscere  nella loro “unità”.

Silvia Montefoschi ci racconta che l’universo nacque quando Dio si separò dal Verbo.    Dopo tale separazione era necessario che i due soggetti si riconoscessero  nella loro propria identità e così si sono imposti il tabù dell’incesto. Non è possibile però rimanere sempre separati, pena l’incompletezza, per cui dopo avere raggiunto la loro maturità tramite il   lavoro riflessivo compiuto e dopo essersi specchiati l’uno nell’altro, possono ricongiungersi e “saltare” su un piano riflessivo più elevato. Si ha così il passaggio dalla “Dualità” all’ “Unicità”.

Viene così ad essere portato a compimento il “Sistema Uomo” e per Silvia Montefoschi la funzione della psicoanalisi qui si esaurisce. Giunge a tale conclusione in quanto era diventata consapevole che il pensiero stesso che ella aveva avuto di sé stessa, veniva ad essere superato in quanto aveva compreso, grazie alla funzione riflessiva, che questo pensiero non apparteneva solo a lei individuo ma anche a lei essere collettivo e in quanto essere collettivo attingeva nel cosiddetto inconscio collettivo-universale. Qui vi era la presenza del pensiero dell’Essere, anche esso in continua riflessione su se stesso, pensiero apparentemente estraneo all’individuo ma ad esso coesistente.

Sta proprio all’essere umano portare questo pensiero dell’Essere alla coscienza. Il lavoro psicoanalitico diventa così un metodo di conoscenza e fa sì che l’uomo diventa il punto di arrivo del processo conoscitivo dell’Essere.

Inoltre l’avere portato i contenuti inconsci alla coscienza decreta la fine della dialettica tra inconscio e coscienza e si viene altresì ad esaurire il compito della psicoanalisi.

Si giunge a un traguardo dove è possibile, se non necessario, uscire dai propri limiti  e potere  prendere contatto con  altri  pensieri provenienti dallo spazio, permettendo così la  comunicazione  tra varie forme viventi  del Pensiero.

Tale esperienza è stata vissuta da Sivia Montefoschi  nel suo incontro con Giovanni.

Silvia è stata sempre al servizio della progettualità evolutiva dell’essere umano,  evoluzione vissuta secondo il concetto darwiniano, quindi non solo progresso ma soprattutto costante cambiamento.

Silvia si è sempre vissuta libera e al di fuori da qualsiasi condizionamento sociale, politico e culturale. Ha sempre rifiutato protezioni ed è sempre rifuggita da inquadramenti vari (vita accademica, associazioni analitiche, movimenti politici); in coerenza a ciò si è dimessa dall’AIPA, la prima associazione psicoanalitica junghiana in Italia, di cui ella stessa era stata socia fondatrice. Inoltre si è sempre tenuta lontana dalla mondanità e ha limitato i suoi incontri solo con chi, come lei, era alla ricerca della conoscenza.

Questo rifiuto di riconoscimenti ufficiali e questo tendere all’isolamento le ha  arrecato consequenzialmente parecchi disagi ed anche parecchie sofferenze, che l’hanno portata a farsi simbolicamente crocifiggere. Questo era  di certo il significato  che voleva darsi  in relazione al sogno fatto in gioventù, in cui Gesù le chiedeva  la sua crocifissione.

Questa è stata la sua autenticità.

Nel marzo 2011 giunge per Silvia il momento di dire addio a questa esperienza terrena.

Il suo Sé continua a vivere e ad evolversi.

Antonino Messina