Un fantasma abita la relazione terapeutica, soprattutto quando è in gioco non solo il corpo, ma l’anima. Cosa può proteggere il paziente dall’abuso da parte del terapeuta? Come è possibile evitare che la sostanza più intima di chi è bisognoso, in crisi, soffre, ha bisogno di aiuto e si offre all’intervento altrui, venga catturata, invasa, alienata a se stessa per diventare proprietà di chi interviene per aiutare, in questo caso il terapeuta o il gruppo di cui il terapeuta è il rappresentante?Quali precauzioni prendere perché il terapeuta non usi la relazione col paziente come luogo di proiezione dei suoi fantasmi, della sua morale, delle parti in lui irrisolte?Come evitare che il terapeuta ne faccia il terreno di riattualizzazione dei suoi complessi (COEX nella teoria di S. Grof) con l’inconsapevole motivazione di riportarli nell’area di lavoro per cercare di risolverli una buona volta, trasformando però così il teatro dell’azione da terapia dell’altro a tentativo (fallimentare) di terapia di sé stesso, e in facile occasione di espansione del proprio Io malato?Tracce di questa preoccupazione – e delle sue possibili soluzioni – si trovano in tutta la storia, ma essa diviene cruciale nell’Occidente moderno per l’enfasi posta qui sulla centralità dell’individuo, sulla sua autonomia e libertà, sulla negazione della funzione vitale di ogni attaccamento (esclusi, naturalmente, quelli parentali).

Le soluzioni offerte dalla psicoanalisi (che per prima si è occupata a fondo della questione), e cioè la convocazione di un terzo sovraumano, presunto neutrale (la Scienza) e l’obbligo dell’analisi personale, ancor prima che didattica, del futuro terapeuta (che, attraverso la soluzione della sua personale nevrosi da transfert, diventa capace di comprendere quella del paziente e soprattutto di controllare il suo controtransfert e quindi il suo desiderio di potenza e di espansione egoica), non sono attuali oggi e qui (per il moltiplicarsi di psicoterapie in cui queste precauzioni non sono adottate né adottabili); ma soprattutto non sono applicabili altrove.L’etnopsichiatria, che pratica anche altri ambienti, extra-Occidentali, incontra proprio il fatto che altrove questo problema (insieme a quello della “libertà” e “autonomia” dell’individuo) non si è mai posto e non si pone: lo schema delle relazioni umane è quello del “fare” all’altro per il suo bene o per il proprio, o per quello del gruppo, dolcemente o crudelmente, ciò che il terapeuta, in quanto rappresentante, lui, del gruppo ma soprattutto di entità superiori, superumane (e quindi presumibilmente aldilà del bene e del male), sa che occorre fare.  In quei contesti, altri accorgimenti vengono utilizzati per mitigare la componente antropofagica sempre potenzialmente presente nei rapporti tra viventi, passibile di scatenarsi là dove esista un significativo slivellamento di potere.Poiché in etnopsichiatria non si adotta lo schema evoluzionistico e occidentocentrico, la soluzione trovata all’interno del nostro mondo va dunque compresa e problematizzata; a partire, per esempio, dalla storia della “teoria del transfert”.Per comodità, credo che qui convenga trattare la teoria del “transfert”, entità messa in campo dalla psicoanalisi, separatamente dalla attualità (la “verità”) della relazione tra terapeuta e paziente, la cui potenza per ora lascerei innominata, misteriosa. L’una è un artificio necessario, come vedremo, alla psicoanalisi e, più in generale, alle psicoterapie del profondo, traformative. L’altra è un fatto, una cosa, componente indispensabile di ogni relazione terapeutica che voglia essere efficace.

Genesi della teoria del Transfert e sua necessità Léon Chertok e Raymond de Saussure (1973), in particolare, tracciano questa storia seguendo quella che in Europa porta, a partire dal 1700 a oggi, dal magnetismo animale alla “scoperta” dell’inconscio.Mesmer, medico in Vienna, magnetizzava i sofferenti in pubblico. L’idea che lo animava era quella dell’esistenza di un fluido universale (idea che aveva ripreso dalla massoneria, ma che era ed è diffusa in molti altri contesti) il cui squilibrio nell’organismo poteva generare malattia. Si trattava allora di ridistribuirlo armoniosamente attraverso la pratica del bacquet magnetico. Per Mesmer e i suoi, gli effetti «psicologici» di queste operazioni erano secondari all’azione fisica e fisiologica. Se in questo processo finiva per crearsi una relazione tra terapeuta e paziente, essa era considerata del tutto accessoria. Il rapporto era pensato a senso unico. Il terapeuta parlava, manipolava; il paziente eventualmente rispondeva attraverso qualche sintomo, dato che si trovava in uno stato di soggezione e regressione che inibiva ogni argomentazione critica: affidatosi al sapiente e alle sue mani, viveva un’esperienza quasi preverbale.  In queste condizioni, tra medico e malato poteva allora stabilirsi un passaggio, lo scambio di un fluido particolare: il fluido magnetico (forza impersonale convocata tra terapeuta e paziente). Tuttavia, gli «effetti collaterali» di queste particolari operazioni turbarono alcuni e in particolare i membri delle due commissioni di inchiesta nominate da Luigi XVI per valutare teorie e pratiche dei magnetizzatori. Ambedue guidate da scienziati celebri, le commissioni espressero nei loro rapporti i motivi per cui quelle teorie e pratiche non solo non erano da considerarsi scientificamente valide, ma addirittura “pericolose per i costumi”. Quel giudizio di non scientificità ha fondato secondo Isabelle Stengers la medicina moderna: da allora in poi, non sarà più lecito «guarire per cattive ragioni». Grazie a un dispositivo sperimentale ingegnoso, la commissione guidata da Lavoisier e Benjamin Franklin concluse infatti che «il fluido senza immaginazione è impotente, mentre l’immaginazione senza fluido può produrre gli effetti che si attribuiscono al fluido». (Stengers 1995: 109). I miglioramenti e le guarigioni osservate venivano considerati come fenomeni passeggeri e superficiali; ma non veniva indicata, stranamente, come se fosse cosa tanto risaputa da non meritare interesse, la necessità di esplorare quel quid, allora chiamato «immaginazione» del paziente, capace da solo, pur in assenza di azioni fisiche, di essere efficace.Nel rapporto della commissione guidata dall’astronomo Bailly, ci sono però anche altre osservazioni, che qui ci interessano.«Loro [le donne] hanno abbastanza charme per agire sul medico; hanno abbastanza salute perché il medico agisca su di loro: allora il pericolo è reciproco. La prossimità protratta a lungo, i toccamenti indispensabili, il calore individuale comunicato, gli sguardi che si confondono, sono le vie conosciute dalla natura e i mezzi che ogni tempo ha preparato per operare immancabilmente la comunicazione delle sensazioni e degli affetti. L’uomo che magnetizza ha di solito le ginocchia della donna chiusi tra i suoi; le ginocchia e tutte le parti inferiori del corpo di conseguenza sono in contatto. La mano è applicata sugli ipocondri e qualche volta più giù sulle ovaie… Non è così strano che i sensi si accendano… Tuttavia la crisi continua e l’occhio si intorbida: è un segno non equivoco del disordine totale dei sensi. Questo disordine può non essere percepito da quella che lo prova, ma non è affatto sfuggito allo sguardo del medico. Non appena questo segno si è manifestato, le palpebre diventano umide; la respirazione è corta, spezzata; il petto si alza e si abbassa rapidamente; le convulsioni iniziano, come i movimenti precipitosi e bruschi o dei membri o del corpo intero. Nelle donne vive e sensibili, l’ultimo grado, il culmine della più dolce delle emozioni, è spesso una convulsione. A questo stato seguono il languore, l’abbattimento, una specie di sonno dei sensi che è il riposo necessario dopo una forte agitazione…» (Chertok – de Saussure 1973: 29-30) Il rapporto conclude quindi non solo affermando l’inesistenza del fluido magnetico, ma sottolineando che: «Il trattamento magnetico non può che essere pericoloso per i costumi.» (ibidem 30) Poiché il compito delle commissioni era quello di accertare l’esistenza del fluido magnetico, la conclusione della sua inesistenza liquidava non solo la teoria di Mesmer, ma anche la sua pratica e le ragioni dei suoi possibili effetti. I terapeuti di quell’area, dopo aver in gran parte rinunciato al modello del magnetismo animale, si misero allora a utilizzare direttamente la «suggestione», se così si voleva chiamare quel particolare rapporto che si stabiliva tra terapeuta e paziente, motore dell’effetto della cura.

Già i magnetizzatori erano stati consapevoli di quella particolare attrazione, di quel «sentimento intensivo» che spinge il malato verso il magnetizzatore e che scompare alla guarigione (anzi la scomparsa ne sarebbe un segno importante) per lasciare il posto a un sentimento di riconoscenza, più spesso di indifferenza, qualche volta di ingratitudine. Quel sentimento era pensato come il risultato dell’intenzione del terapeuta e della propensione del paziente a farsi suggestionare da lui. Per Charles de Villers (1787, citato in Chertok – de Saussure 1973: 46), per esempio, ad agire è l’intenzione di guarire del terapeuta che si innesta sulla disposizione intima del malato nei confronti del terapeuta. A partire dal 1850 la pratica del magnetismo venne dunque sostituita con l’ipnosi il cui principio attivo era la «suggestione»; prima, come abbiamo visto, si parlava invece, per spiegare il vissuto del paziente, di sua «immaginazione» legata a meccanismi interni, psico-neuro-fisiologici, ciò che lasciava in secondo piano l’importanza della intenzione del terapeuta e della qualità della relazione. Anche nel caso della suggestione, tuttavia, venivano attivati meccanismi propri del paziente; così che perfino le reazioni erotiche chiare, a volte sessualizzate fino all’orgasmo, potevano essere pensate come effetti meccanici indipendenti dalla persona dell’operatore, al quale a volte poteva capitare involontariamente di attivare zone erogene anomale. Comunque, gli ipnotizzatori si consideravano degli «osservatori» dei fenomeni che suscitavano piuttosto che degli «attori» nelle scene che avvenivano.

Sigmund Freud, che prese le mosse proprio da questo terreno, costruendo la sua cura sulla pratica di relazioni di coppia intime e protratte, poté procedere e assumere il rischio delle conseguenze di tale impianto (che altrove sarebbe giudicato ad alto rischio di cannibalismo) solo grazie alla particolare protezione di cui si era dotato in seguito alle sue prime, a volte drammatiche esperienze cliniche. L’amuleto che si costruì era uno speciale oggetto culturale: la “teoria del transfert”; e cioè la convocazione sulla scena terapeutica non più della forza impersonale invocata dai magnetizzatori, ma di un fantasma terzo, che consentisse di tenere sotto controllo le pulsioni del terapeuta e di deviare l’investimento del paziente. La storia di questa invenzione è tanto complessa quanto interessante, e provo a riassumerla qui. Nel Novembre 1882 Freud, medico fino ad allora impegnato in ricerche di neuroanatomoistologia, venne a conoscenza del caso di una paziente isterica affetta da doppia personalità in cura presso il suo amico Joseph Breuer. Anna O. aveva sviluppato un tale trasporto per il suo terapeuta da indurlo a interrompere la cura (anche a causa, pare, della gelosia della moglie). Freud così racconta questa conclusione: «Dopo che il trattamento catartico sembrava concluso si era instaurato di colpo, nella giovinetta, uno stato di “amore di traslazione”; Breuer non lo mise in relazione con la malattia della paziente e, costernato, decise di troncare con lei ogni rapporto.» (Freud 1924: 94, corsivo mio). Sappiamo poco della posizione emotiva di Breuer in questa relazione, ma possiamo supporre che un attaccamento affettivo ed erotico così intenso fosse sbocciato su un terreno fertile, e fosse cresciuto sufficientemente da inquietare anche la signora Breuer. Freud parla di questo caso anche in alcune lettere alla sua fidanzata; e intuisce l’interesse della vicenda, in vista della comprensione dei disturbi isterici e della tecnica ipnotica. Nel 1885 Freud ottenne una borsa di studio postlaurea. Scrive allora alla sua fidanzata: «Partirò per Parigi, diventerò un grande sapiente e tornerò a Vienna adorno di una grande, enorme aureola e ci sposeremo subito e guarirò tutti i malati nervosi incurabili…» (Freud Correspondance, Parigi 1966: 166, cit. in  Chertok – de Saussure 1973: 97) A Parigi incontra Charcot e ne è sedotto: ha di fronte la personificazione stessa del suo ideale dell’Io. Charcot lavorava sull’isteria, e con la sua nonchalance da gran signore dimostrava a Freud che era possibile anche da una posizione istituzionale e pubblica di grande prestigio non essere così legati alla ortodossia scientifica e medica e alla neurofisiopatologia,  e perfino assumere apertamente l’aspetto torbido delle relazioni terapeutiche. Una volta liberati dalla «ossessione fisiologica» (l’obbligo di stare nel campo dell’organicità), si poteva entrare finalmente nel campo della psicologia, e cioè dell’immateriale (relazioni, vita intrapsichica), senza venire screditati dall’istituzione universitaria e medica. Da questa posizione (che a Freud allora doveva sembrare quasi regale), Charcot studiava con calma, pubblicamente e «scientificamente» le manifestazioni erotiche delle sue pazienti, quelle stesse che avevano invece indotto Breuer («che non le aveva messe in relazione con la malattia») alla fuga. Al suo ritorno a Vienna, Freud si trovò a misurare il suo entusiasmo con l’ostilità dei colleghi e della Facoltà. Vienna non era Parigi e Freud non era Charcot; la sua lettura del Rapporto di viaggio davanti alla Società dei Medici di Vienna il 15 Ottobre 1886 fu un vero fiasco. Ma ci voleva ben altro per impedirgli di portare avanti la sua ricerca, dalla quale sapeva di poter trarre interessanti sviluppi sia scientifici che professionali (a Parigi aveva constatato l’interesse del pubblico per questo approccio), e che continuò ad approfondire basandosi sulle sue proprie osservazioni cliniche. In seguito abbandonò l’ipnosi, ufficialmente per la sua non applicabilità di massa, per il rischio che dissimulasse le resistenze del paziente e perché «…perfino i risultati più brillanti svanivano improvvisamente nel nulla allorché il rapporto personale del medico col malato veniva in qualche modo turbato. E’ vero che essi si ristabilivano non appena veniva trovata la via della riconciliazione, ma intanto avevamo imparato che aveva più potere di qualsiasi lavoro catartico la relazione affettiva personale tra paziente e medico, relazione che appunto non sapevamo come controllare.» (Freud 1924: 95)  Di nuovo, proprio come per il magnetismo, la relazione sembrava più attiva del dispositivo tecnico isolato.Nella decisione di Freud di abbandonare l’ipnosi ebbe però anche il suo peso un episodio increscioso che gli capitò di vivere nel corso della terapia di una giovane donna.

Freud lo racconta nella sua Autobiografia (Selbstdarstellung) così: «In un bel giorno ebbi la prova lampante che quel che sospettavo da molto tempo corrispondeva a verità: una delle mie pazienti più docili, con la quale avevo ottenuto in ipnosi risultati davvero splendidi, un giorno in cui la liberai della sua sofferenza riportando l’attacco doloroso ai motivi che l’avevano provocato, svegliandosi dal sonno ipnotico mi gettò le braccia al collo. L’entrata inaspettata di una domestica ci risparmiò una chiarificazione che sarebbe stata penosa, ma da quel momento in avanti rinunciammo, per un tacito accordo, alla prosecuzione del trattamento ipnotico. Avevo buon senso a sufficienza per non attribuire questo evento alla mia personale irresistibilità e reputai dunque di aver finalmente capito quale fosse la natura dell’elemento mistico (Mystich) che agiva al di là dell’ipnosi; per eliminarlo, o quanto meno isolarlo, bisognava che rinunciassi all’ipnosi.» (Freud 1924: 95) L’episodio gli ricordò i motivi della fuga di Breuer ( e cioè la sua decisione di interrompere il trattamento di Anna O.) che infatti cita qualche paragrafo prima nella sua Autobiografia. Mystich in tedesco significa insieme mistico e misterioso, enigmatico, che sfugge a ogni spiegazione razionale; è più vicino al termine greco da cui deriva (il verbo μυω: mi chiudo, sono serrato; da cui, per esempio, “mistero”), che a quello italiano, che ha una maggiore connotazione religiosa e trascendentale. Per Freud, l’«elemento mistico» in questione aveva a che fare con «un abbandono amoroso totale» capace anche di fare a meno della dimensione carnale; particolare forma di amore dove realtà e irrealtà costituivano un insieme inestricabile, o districabile solo attraverso l’analisi.L’episodio motiva, nel fondatore, una scelta obbligata. Se lo slancio della paziente verso il suo terapeuta fosse stato considerato sul piano della realtà, e fosse stata presa in considerazione la reciprocità che lo aveva reso possibile, la psicoanalisi non avrebbe avuto un futuro. L’implicazione diretta, affettiva del terapeuta nel processo di guarigione del paziente avrebbe comportato la sua disattivazione in quanto terapeuta e un suo cambiamento di ruolo incompatibile con il mestiere (basti pensare alla necessaria moltiplicazione quantitativa di un simile investimento). D’altra parte, se il terapeuta si fosse davvero chiuso a quello slancio inibendolo o se fosse stata evitata la costruzione di una “relazione affettiva personale tra paziente e medico”, la terapia sarebbe stata inefficace. Come risolvere questo problema, disattivare il potere dirompente della relazione affettiva, pur tanto necessaria alla riuscita della cura?

Gli ipnotisti avevano cercato di farlo aprendo la scena dell’ipnosi a un terzo umano, un testimone; possibilità che però sia Breuer che Freud avevano scartato, perché contraria a quel contesto di intimità che, solo, consentiva a loro parere la regressione e lo sprofondamento del paziente nel rimosso. L’unico modo per rendere quel tipo di eventi lavorabili dallo psicoanalista era considerare lo slancio della paziente, interpretarlo, non come diretto al terapeuta, ma all’immagine di una «figura terza» collocata tra i due. La parte del terapeuta e del dispositivo nello “slancio” veniva così minimizzata evocando un terzo, complessificando e sdrammatizzando la relazione duale; ma, invece di une entità numinosa (Dio, Jinn o altro) o di una forza impersonale (come il fluido magnetico) si trattava qui solo, in armonia con lo spirito laico del tempo, di un terzo prodotto dal paziente stesso attraverso la sua rimozione: un fantasma umano (come il fantasma del padre), appunto. La teorizzazione di questo escamotage che consentiva la prosecuzione del lavoro psicoanalitico fu la costruzione della teoria del transfert. In questo modo il terapeuta si dotava di una protezione che gli era indispensabile, attraverso un artificio tecnico destinato a consentirgli di sussistere nel suo ruolo e continuare il suo lavoro. Ulteriore oggetto destinato a spersonalizzare la relazione e rendere il lavoro psicoanalitico e psicoterapeutico possibile (dopo i magneti e il baquet di Mesmer, o le teorie psico-fisiologiche sull’immaginazione), l’oggetto/nozione del transfert è per il terapeuta che decida di praticare ed esplorare con il proprio paziente-cliente situazioni intime (di coppia, abbandono confidente sul divano con riduzione dei freni inibitori, ecc.) la nuova, necessaria difesa contro un coinvolgimento personale eccessivo e un possibile passaggio all’atto.Poiché rifiutava di spiegare (o ridurre) l’incidente con la (alla) sua «irresistibilità personale», Freud dunque introdusse un terzo fantasmatico tra sé e  il paziente. In quel momento, si profila insieme l’avvento della teoria del transfert e l’abbandono dell’ipnosi.

La teoria del transfert rende possibile mantenere le distanze perché trasforma il terapeuta da attore in osservatore capace di svelare il processo, il mistero che si svolge sotto i suoi occhi. Paradossalmente, consente di vivere la personalizzazione della relazione proprio perché fornisce una protezione che la depersonalizza.  A partire da quel momento prende forma la cura psicoanalitica con al suo cuore l’elaborazione del transfert e l’analisi delle resistenze che lo impediscono. In quel contesto la concezione dell’eziologia sessuale delle nevrosi può venire alla luce ed essere messa alla prova perché la riattualizzazione del trauma amoroso del paziente (e la coazione a ripetere relazioni affettive traumatiche) trova nel laboratorio dello psicoanalista un buon terreno di cultura e una manifestazione nella coscienza, e quindi un possibile contenimento, la sua elaborazione e la possibilità di una sua trasformazione. Come ogni protezione, anche la teoria del transfert comporta però un rischio, se chiude la porta alla relazione attuale. C’è infatti sempre nell’implicazione affettiva del paziente una componente attuale, originale, non ripetitiva, rivolta proprio alla qualità del rapporto con quello specifico umano che ha davanti (o dietro); implicazione che ha a che fare con la sua capacità e il suo desiderio di concedersi a un abbandono a quel particolare umano, a una alleanza che pare comportare una possibilità evolutiva. Le specifiche condizioni del setting (l’ascolto e la disponibilità del terapeuta, che il pagamento in differita delle sedute permette di fantasticare come disinteressato e simmetrico) favoriscono il sorgere dell’illusione. Questa implicazione si appoggia dunque a delle caratteristiche specifiche della relazione e del terapeuta che la sopporta. La sua interpretazione come ripetizione di relazioni fantasmatiche fondamentali, se serve per mettere il terapeuta al riparo dall’investimento libidinale del paziente, rischia di disarmare l’intenzione che la anima, spostandola sul piano fantasmatico e quindi riducendola a una ripetizione che la priva del suo senso attuale.Il sottrarsi del terapeuta alla dichiarazione (anche non verbale) di soggezione, amore o ostilità del paziente, non riconoscerne le basi di realtà, rischia di rinviarlo a traumi da omissione o non riconoscimento, o di favorirne elaborazioni paranoiche (si veda in Ferenczi 1932).La “scoperta del transfert”, introduce quindi nella relazione terapeutica un terzo che è il rappresentante dell’unica dimensione invisibile contemplata dalla psicoanalisi, l’inconscio, componente misteriosa interna alla persona (e non più diffusa nell’esistente impersonale). Il mistero è dunque ciò che, dentro l’individuo, è stato sottratto alla coscienza e che il paziente lavoro analitico consentirà di recuperare al lavoro degli umani.

Ora, questa visione è propria dell’Occidente e di quella parte della cultura occidentale che ha espulso la componente collettiva, immateriale ma attiva dell’esistente; per la quale parole come anima, spirito, cultura sono sospette. Detto altrimenti, evocare all’interno di una relazione terapeutica come terzo necessario i fantasmi dell’inconscio vuol dire non disporre di altri invisibili, lavorare e considerare il mistero (le cose nascoste) da una prospettiva che è frutto di una particolare visione del mondo. Vuol dire cioè da parte del terapeuta proporre al paziente una visione del mondo specifica, non come opzione, o accessorio culturale, ma come elemento strutturale della sua trasformazione. «Sii capace di accettare che il mistero del mondo si riduce a quello delle tue intenzioni» recita il terapeuta ogni volta che propone una sua interpretazione; e il paziente, che ha paura e bisogno, coglie la prescrizione come una ingiunzione che provvisoriamente lo rassicura: «Non c’è altro mistero nel mondo che quello delle mie intenzioni.» Provvisoriamente lo rassicura; ma a lungo andare lo porta a disanimare il mondo, e in definitiva a interrompere i suoi attaccamenti con gli invisibili che popolano l’esistente che condivide col gruppo e che lo fanno parte del gruppo stesso; a trovarsi così solo, connesso soltanto a oggetti senza rapporto con alcun mistero sovraindividuale, ma solo con intenzioni umane. Abolita la dimensione del sacro, il mondo appare allora (e, per alcuni, finalmente) come un immenso teatro di possibili operazioni tecniche, animato soltanto da intenzioni umane, queste sì, reali e di volta in volta legittime nella misura in cui possono essere controllate e ammansite. Si tratta però proprio di una illusione, analoga alla fede nel Progresso che animò gli uomini di quell’epoca. Della caducità di quella fede, testimonia per esempio la disillusione di Freud allo scoppio della terza guerra mondiale. Il terzo invocato nella relazione psicoanalitica a protezione del terapeuta e del dispositivo, se è possibile oggetto di controllo umano in quanto appare famigliare, rischia perciò di non proteggere né il paziente, se l’attualità del suo investimento affettivo non è riconosciuta, né il mondo che lo circonda. E’ il terzo ideale nella storia che conosciamo, nata in Europa e in piena espansione, fondata sulla chiusura dell’individuo su se stesso e sul dominio su un mondo disincantato. Questa storia, l’unica finora a «fare storia», si scontra nell’epoca attuale con altre che la rifiutano e che, nel loro divenire, hanno messo tra terapeuta e paziente come garanti altri terzi, di altra natura, che hanno altri proprietari. E’ quindi comprensibile che rappresentanti di altre culture dove i terzi invocati nelle terapie a protezione dalle comuni dinamiche umane di potere sono altri, rifiutino l’evocazione di un terzo che non offre loro le garanzie necessarie di protezione (non solo per loro, ma per il gruppo del quale sono rappresentanti). Senza questo terzo sovraindividuale, condiviso dal gruppo e al quale il terapeuta e il paziente sono entrambe legati, garante del processo, il paziente non se la sente in quei casi di abbandonarsi a una dinamica umana, troppo umana, regolata da ambo le parti dalla passione del potere, aperta alla vocazione demiurgica del terapeuta o – vista da altri contesti – al suo desiderio antropofagico, di sfruttamento e soggezione.

L’etnopsichiatria nathaniana e la centralità del controtransfert Tobie Nathan accetta di essere considerato un “costruttivista”: i terapeuti di tutto il mondo si creano gli oggetti (le “entità”) necessari al loro lavoro; questi oggetti non appartengono all’ambito della “natura”, non hanno realtà ontologica, sono artifici, invenzioni: prodotti culturali, parte di quella costruzione complessa (la cultura) che consente ai gruppi umani di operare nel mondo.Per Nathan, l’invenzione del transfert (la “teoria del transfert”) da parte di Freud risponde all’impasse in cui, come abbiamo visto, avevano finito per trovarsi il mesmerismo, la suggestione e l’ipnosi. C’è un percorso in cui il soggetto della dinamica si sposta dal cielo al terapeuta, e da questi al paziente. I guaritori chiamano in causa gli invisibili, i defunti, gli antenati e i santi; entità di cui sono i mediatori. Mesmer attivava una forza sovraindividuale e impersonale, il magnetismo. Gli ipnotizzatori sostituiscono queste entità esterne e sovrapersonali, attive su un gruppo e non appartenenti a un singolo, con un meccanismo psicofisiologico che, per quanto enigmatico, è interno al paziente. Anche la teoria del transfert sposta l’azione nel campo del paziente e convoca come terzo un suo personale fantasma, prodotto dalla sua storia personale, dalla sua biografia: espressione del suo proprio inconscio.L’invenzione del transfert è strettamente legata a quella dell’inconscio, entità invisibile, crudele, come dice Stengers, che muove il paziente nella ripetizione di un vincolo che il lavoro psicoanalitico si propone di sciogliere. La teoria del transfert consente al terapeuta di pensarsi neutrale, estraneo, addirittura mero supporto della dinamica in atto tra il paziente e i suoi fantasmi; e lo assolve così da ogni possibile accusa di influenzamento che invece mette in luce la dinamica di potere propria a ogni relazione terapeutica. Occulta in particolare l’evidenza che è la  teoria del terapeuta a mettere in forma il vissuto del paziente.«Ciò che fanno psicoterapeuti e psicoanalisti, è iscrivere degli avvenimenti disparati della vita di un soggetto in una teoria coerente. Sottolineano, notano, mettono la punteggiatura, installano dei poli, facendo succedere dei centri. Prelevano dal flusso continuo della vita dei microavvenimenti ai quali attribuiscono una funzione organizzatrice. Nell’immenso cielo costellato, puntano una stella che decretano centro dell’universo. In fondo, hanno in un certo senso ragione a pretendere che non fanno niente, il loro fare è essere – essere il rappresentante accreditato di una teoria. Questa attività, che potrebbe sembrare banale a un primo sguardo, esercita in verità una influenza considerevole sul divenire della persona – la orienta, la polarizza, ne fa il soggetto di un pensiero. Per quello che ne so, Ferenczi è stato il primo a notare come la teoria a partire dalla quale lo psicoanalista pensava il paziente era il vettore principale dell’influenza. Ne ha descritto la violenza, notato la rabbia che si impadronisce del paziente, spesso la sua disperazione di non essere inteso precisamente là dove parlava.» (TN 2001: 9-10)

Una parola nuova – influenzamento – viene in Nathan a sostituire quella di immaginazione (del paziente), suggestione (dove il terapeuta è attivo, e il paziente accondiscendente) o di transfert (che rimetteva nuovamente nel campo del paziente il centro dell’azione). La teoria dell’influenzamento (“influenzologia”) riporta nuovamente l’iniziativa nel campo del terapeuta; non si tratta però di un fantasma, ma di un fatto che, una volta constatato, richiede a sua volta l’invenzione di accorgimenti tecnici capaci di osservarlo e controllarlo.«Sapendo che la principale influenza deriva dal fatto che il terapeuta pensa il paziente a partire da una teoria, come possono le regole elementari della democrazia penetrare l’universo della psicoterapia? L’avventura della teoria psicanalitica del transfert, che cerca a ogni costo di discolpare lo psicoanalista da ogni influenza, è a mio parere obsoleta. Sì, lo psicanalista influenza, perché pensa, perché è il rappresentante di una teoria, perché dispone di un potere e partecipa a gruppi sociali che lo usano. E’ assurdo rifiutare la constatazione dell’influenza, illusorio immaginarsi di passarci sopra perché è proprio lei che, qualche volta, permette di guarire. Ma dobbiamo essere conseguenti: permettere all’influenza di agire, certo, ma non ammetterla che per quello per cui l’abbiamo sollecitata; lasciare che il suo gioco si dispieghi, ma avvertirne colui che ne sarà l’oggetto e fornirgli le conoscenze che gli permettano di ricondurla alla sua sorgente.» (TN 2001: 11) Il controllo controtransferale, più che l’elaborazione del transfert, diventa centrale in etnopsichiatria: è il controllo sulla azione antropo-poietica e pato-plastica ad opera della cultura (etica, ma anche tecnica) di cui il terapeuta (soprattutto lo psicoterapeuta) è rappresentante.Sandor Ferenczi aveva provato a introdurre le «regole elementari della democrazia» nella relazione terapeutica attraverso l’analisi reciproca, senza grandi risultati. L’etnopsichiatria clinica ha cercato altri modi e proposto altre soluzioni. «Per districare teoria e terapeuta, c’è un altro modo, più accessibile, più maneggevole dell’analisi reciproca: la molteplicità.» (TN 2001: 11) Se viene evocata, nella sessione di etnopsicoterapia, una moltitudine di teorie senza squalificarne nessuna, si evoca anche una molteplicità di attori; e tra di essi in primis il paziente e il suo gruppo, ai quali, per la nostra scarsa conoscenza delle teorie del loro mondo, viene attribuita allora la posizione di esperti. Agire in questo modo implica una professione di fede: la teoria nella quale il terapeuta pensa il paziente interessa prima di tutto il paziente e non la comunità professionale dei terapeuti. Introdurre il contraddittorio fa sì che il terapeuta prenda dei rischi, e possa essere contraddetto. Allora la psicoterapia finisce per assomigliare sempre meno a uno spazio intimo, e sempre più a un luogo sociale di scambio e di dialogo; più a una assemblea che a un confessionale. Acquistano diritto di esistenza e vengono discusse, in quel contesto,  le teorie dei terapeuti presenti, ma anche quelle che hanno contenuto la sofferenza del paziente, che la hanno messo in forma. Cosa diventa allora il transfert in questo contesto? “Ciò che non avrebbe mai dovuto smettere di essere: la misura cosciente e pensata dal paziente del potere reale del terapeuta, quello di cui dispone nel mondo ed esercita nella sua pratica.” (TN 2001: 12).La centralità dell’analisi dell’influenzamento e quindi del controtransfert in etnopsichiatria sposta il centro dell’iniziativa dal paziente (prima soggetto della dinamica sanante, quella che attiva e risolve la nevrosi da transfert) al terapeuta, rimesso al centro della scena, depositario di potere: ha “un dono” che ha perfezionato in “saper e poter fare” nel corso della sua formazione e iniziazione. Si deve quindi misurare con il potere affiliante della sua teoria, che è poi desiderio di conferma ed espansione egoica (e quindi delle proprie cosmovisioni, norme etiche, culture), con le sue tentazione demiurgiche, con la quantità di preconcetti che impone, esplicitamente o implicitamente, al paziente. Siccome la sua neutralità è impossibile, occorre che sia consapevole degli impliciti che le sue operazioni tecniche comportano (questo dovrebbe essere il risultato della sua analisi di sé stesso) e che li riconosca ed esponga all’analisi critica del paziente.  La stessa cosa dovrebbe succedere nel controtransfert affettivo e sessuale, poiché i pazienti hanno in genere una sensibilità estrema per i desideri, le tendenze, gli umori, le simpatie e antipatie del terapeuta, e cercano di assecondarlo accettando anche l’invito pedagogico all’identificazione con lui. La negazione di ogni dinamica attuale attiva nel setting impedisce al paziente di stare nella realtà respingendolo nella diffidenza o nella illusione. Diventa allora centrale la costruzione di un setting che favorisca la possibilità della sincerità reciproca e controlli il rischio di dinamiche di cattura e identificazione mimetica. Il setting etnopsicoterapeutico proposto da Nathan risponde ad alcune di queste esigenze.Se l’elaborazione del transfert (la soluzione della nevrosi di transfert) è un passaggio centrale di un particolare dispositivo terapeutico (psicoanalisi e terapie psicoanalitiche), non lo è necessariamente in tutte le terapie rivolte alla componente immateriale degli umani. L’attenzione al controtransfert e il suo controllo sono invece indispensabili in ogni relazione terapeutica, compresa, evidentemente, quella psicoanalitica. In questa prospettiva il controtransfert non deve essere considerato come la sola risposta del terapeuta al transfert del paziente, ma come la parte del terapeuta nella relazione con il paziente; e non solo per ciò che riguarda la sua reazione personale, idiosincrasica, all’incontro con l’altro, ma anche per gli effetti dell’incontro/scontro tra la cultura di cui il terapeuta è rappresentante e quella di cui è rappresentante il paziente. Controtransfert personale e controtransfert culturale sono distinguibili solo per comodità di analisi e didattica.

ransfert e controtransfert hanno quindi una base attuale, di realtà, connessa con l’incontro/scontro tra alterità in una situazione di potere slivellata. Questa base di realtà non può essere negata, o occultata, senza rischio patogeno per il paziente e senza produrre un arresto del processo terapeutico e della ricerca che lo sottende. L’attesa del momento e la ricerca del modo migliore per mettere in campo la “sincerità reciproca” fa parte della responsabilità del terapeuta.

Piero Coppo

 

  • Chertok Léon – de Saussure Raymond 1973 Naissance du psychanalyste, Les Empêcheurs de penser en rond, Eynthélabo, Parigi, 1996
  • Coppo Piero 2007 Negoziare con il male, Bollati Boringhieri, Torino
  • Devereux Georges 1980 De l’angoisse à la méthode dans les sciences du comportement, Paris, Flammarion
  • Ferenczi Sandor 1932 Confusione delle lingue tra adulkti e bambini : Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione, relazione al XII Congresso Internazionale di Psicoanalisi, Wiesbaden
  • Freud Sigmund 1924 Autobiografia in Freud Opere 1924-1929 Vol. X, Bollati Boringhieri, Torino, pp.71-141
  • Grof Stanislav 1985 Oltre il cervello. L’esplorazione transpersonale delle possibilità della coscienza umana, Cittadella Editrice, Assisi, 1988
  • Nathan Tobie  2001 De quelques problèmes philosophiques et politiques posés par la théorie psychanalitique du transfert, «Ethnopsy, les mondes contemporains de la guérison», 3, 5-12
  • Nathan Tobie 1994 L’influence qui guérit, Odile Jacob, Parigi
  • Nathan Tobie 2000 L’héritage du rebelle. Le rôle de Georges Devereux dans la naissance de l’ethnopsychiatrie clinique en France, «Ethnopsy, les mondes contemporains de la guérison», 1, 197 – 226