Il rapporto psicoanalitico si dà fondamentalmente in una relazione. Questa affermazione può apparire scontata, ma forse non lo è se consideriamo l’enorme quantità di considerazioni e di scritti che in ambito psicoanalitico si sono sviluppati sul  transfert (e un po’ meno, se non più di recente, sul controtransfert). Direi, anzi, che la sorpresa che Freud ci comunica nel descrivere il fenomeno del transfert testimonia della non scontatezza nel concepire il processo psicoanalitico come relazione. Forse per una pretesa “neutralità scientifica” della posizione dell’analista nei confronti del paziente (o della paziente, vedi Anna O. e Dora), Freud immediatamente si turba nel vedere, e nel vivere su se stesso, che la neutralità del rapporto professionale è rotta dai moti affettivi del paziente nei suoi confronti (ne aveva già fatto le spese Breuer nel trattare i casi d’isteria). Forse anche si turba (ma lo dirà più avanti parlando del controtransfert) nel vedersi per niente neutrale nel rispondere a questi moti transferali con altrettanto turbamento affettivo. Ma, quasi ad operare un’immediata difesa, prende distanza dagli affetti presenti nella relazione analitica e li colloca in un luogo passato, meno coinvolgente nell’attualità del rapporto e più “guardabile” con distacco. Ecco allora che il moto affettivo del transfert non riguarda questa relazione analitica, ma si riferisce a quella relazione genitoriale. O forse neanche. Piuttosto la relazione immaginata con i genitori, frutto delle fantasie e dei desideri sessuali. Il transfert è allora la proiezione sull’analista dei conflitti affettivi irrisolti (o non esaminati) del paziente attribuiti al suo rapporto con i genitori. Stia dunque tranquillo l’analista, perché “il paziente riversa sulla persona del medico una notevole aliquota di tenerezza ed affetto che non è basata su alcun rapporto reale” (Freud 1909).

Ho già mostrato in altra sede (Cozzaglio 2008) come questa prospettiva sia a mio modo di vedere riduttiva, anche se rassicurante. Già Jung non ci credeva poi tanto. Egli considerava reale il trasporto affettivo del paziente (e dell’analista) nel rapporto analitico hic et nunc e, semmai, considerava il transfert, così come descritto da Freud, come un tentativo di sfuggire al rapporto che si dava in quel momento (Jung 1935).A ben vedere, i termini transfert e controtransfert tradiscono già una particolare visione del soggetto umano che si trova ad essere protagonista del rapporto analitico: l’uomo visto come Io-monade. Io perché radicalmente separato dal Tu; monade perché concluso in se stesso, nei propri affetti, conflitti, desideri, moti personali. Gli affetti sono “proiettati” per uscire dall’Io-monade e raggiungere il Tu. Situazione che Robert Storolow ha bene descritto come mito psicoanalitico della “mente isolata”, isolate mind (Storolow e Atwood 1992). L’accento, inoltre, è posto sulle problematiche affettive del paziente, colui che trasferisce proiettando. La reazione dell’analista è una contro-reazione al transfert del paziente, di controtransfert, per l’appunto. Solo in anni più recenti si è iniziato a parlare con maggiore frequenza del “transfert dell’analista”. In più, il controtransfert spesso è stato descritto come “problema affettivo irrisolto dell’analista” (Bettinelli 2008).In queste brevi riflessioni è mia intenzione ricollocare il transfert e il controtransfert in una prospettiva relazionale. E non solo. Questa operazione è già stata fatta egregiamente da tutti quegli autori che hanno sviluppato la riflessione relazionale della psicoanalisi.

Vorrei dunque spingermi un po’ più in là, tentando una lettura dei fenomeni transferali e controtransferali in una prospettiva intersoggettiva, o meglio, considerando le due fondamentali modalità di relazione: interdipendenza e intersoggettività, in prosecuzione della riflessione iniziata da Silvia Montefoschi (1977). E’ da questo punto di vista che, a mio avviso, si rendono espliciti i bisogni e i moti affettivi che si danno nella relazione, e le modalità di accoglienza (o meno) evolutiva di questi bisogni e moti affettivi nel rapporto analitico.In uno sguardo relazionale, innanzitutto, transfert e controtransfert possono essere visti come le modalità di interazione nel rapporto tra i soggetti coinvolti, modalità espressive del rapporto che si modellano dinamicamente (in modo dialogico) sulle risposte che via via vengono date nel rapporto stesso. Transfert e controtransfert perciò riguardano sempre l’attualità del rapporto, anche se traggono le loro modalità espressive anche da esperienze precedenti di rapporto e dalle risposte che quelle esperienze precedenti hanno suscitato. Questa concezione comporta che la trasformazione del transfert e del controtransfert implica in realtà il poter trovare modalità differenti di rapporto rispetto a quelle già attese e abituali. Modalità relazionali nuove che entrambi i soggetti interlocutori devono poter trovare, sempre nell’attualità del rapporto. Solo in questo modo i concetti di transfert e controtransfert escono dal solipsismo psichico individuale, come se la loro risoluzione implicasse un lavoro personalistico di “ritiro della proiezione” o di “analisi personale”. In altre parole, occorre passare da una concezione causalistica del transfert (proietto sull’altro i miei conflitti pulsionali all’origine) a una concezione finalistica: il transfert è quella modalità di relazione che mi permette di entrare in relazione con l’altro (mi si passi la tautologia) per quella che è la mia conoscenza attuale delle modalità di relazione.

A questo punto penso che sia importante soffermarci su quelle che sono le fondamentali modalità di rapporto tra i soggetti. Perciò incominciamo dal rapporto di dipendenza.Oserei dire che nasciamo ontologicamente dipendenti nel rapporto con il mondo, con l’altro, con noi stessi. La nostra possibilità di sopravvivenza è in stretta dipendenza da qualcun altro, un genitore che è anche caregiver, dispensatore di cure; “genitore” anche nel senso che suscita in noi la possibilità stessa di relazione con il mondo. Tanto si è scritto a questo proposito in psicoanalisi, assolutizzando spesso l’importanza del genitore (più che della funzione genitoriale). In ogni caso queste considerazioni ci portano a considerare l’essenzialità del rapporto di dipendenza nella sua necessità. Il primo bisogno del soggetto, infatti, si dà come bisogno di dipendenza, in quanto bisogno di relazione. La dipendenza nasce dal bisogno del soggetto di mostrarsi all’altro soggetto e dal bisogno di rispecchiarsi in lui. Kohut (1971) e Nathan Schwartz-Salant (1982) bene descrivono come questi due bisogni (“esibizione” e “rispecchiamento”) siano primari e costituiscano il punto di svolta  del narcisismo primario. Pena il vissuto di irrimediabile separatezza tra soggetti umani, il passaggio dal rapporto di dipendenza è irrinunciabile. La dipendenza è il necessario motore per la conoscenza di sé e dell’altro in quanto soggetti dialoganti, conoscenza che si dà (come scrive Montefoschi) sul piano di coscienza del soggetto riflessivo ma, aggiungo io, anche sul piano esperienziale, emotivo ed affettivo. Dipendenza che, se riuscita, se cioè coinvolge entrambi i soggetti, è interdipendenza. Interdipendenza “sana” perché principio di ogni dialogo. Ma non sempre sana. Ritengo, infatti, che all’interno del rapporto di interdipendenza occorra distinguere il rapporto “simbioticamente dipendente” dal rapporto “reciprocamente dipendente”.Il rapporto “simbioticamente dipendente” attua il bisogno di potere e di controllo sulla relazione. Nasce da una mancanza di sintonia (tuning) con l’altro del rapporto, da un bisogno relazionale mai colmato, accompagnato da un sentimento costante di perdita dell’altro. La simbiosi, il sentire di essere se stessi solo come appendice dell’altro (e viceversa), cerca di colmare un senso di identità incerto nel soggetto. Il mostrarsi all’altro soggetto non riesce ad ottenere una risposta di rispecchiamento che fa nascere l’identità di soggetto. Spesso dietro questo tipo di rapporto interdipendente si osserva una incapacità di relazione dialogica, accompagnata dalla negazione e dalla sconferma dei propri vissuti emotivi e dei vissuti emotivi ed affettivi che si danno nella relazione stessa. La dipendenza che nasce è sostitutiva di un sentimento di distanza spesso incolmabile nella relazione. Le modalità di rapporto osservabile tendono ad essere ricattatorie, manipolative, strumentali. La soggettività dell’altro (e la propria) è vissuta come minaccia (l’altro, libero, mi lascerà) e il bisogno di controllo coincide con il tentativo di rendere l’altro (o noi stessi) oggetto, controllato e sicuro. La dipendenza simbiotica è al contempo sicurezza e minaccia: sicurezza perché l’altro non può lasciarmi, minaccia perché se l’altro si allontana io muoio. Il rapporto tende a coincidere con l’identità soggettiva: “io sono il rapporto, l’altro è il rapporto”. Non vi è spazio per la diversità soggettiva. Il pericolo è quello del collasso della propria identità di soggetto. Come difesa controdipendente, perciò, in una fase più evoluta del rapporto simbioticamente dipendente, il soggetto ha paura della dipendenza e si isola in una sorta di narcisismo che gli fa evitare ogni coinvolgimento affettivo intimo.Il rapporto “reciprocamente dipendente” attua il bisogno di conferma nella relazione, il bisogno di mostrarsi e di rispecchiarsi nell’altro, che in questo caso trova una sintonizzazione reciproca. Trovata la propria identità, in uscita dall’identificazione fusionale con l’altro, il rischio di perdersi e di perdere l’altro nel rapporto è affrancato dal sentimento di reciprocità e di vicinanza. Vicinanza, questo è importante, che inizialmente si sperimenta con la presenza costante dell’altro e che man mano, progressivamente, può tollerare la diversità e la lontananza. Questa “tolleranza” inizia dalla ricerca delle ripetute conferme del rapporto, che si dà quindi comunque come rapporto interdipendente. Ma, pur accettando la dipendenza, posso pensare di osare come soggetto, senza paura di dover perdere l’altro se il sentimento della relazione è sufficientemente solido. I momenti di contrasto e di allontanamento sono vissuti come potenzialmente costruttivi e non come una minaccia catastrofica, a differenza del rapporto simbiotico. Il rapporto reciprocamente dipendente permette, nel tempo, una presa di coscienza della dipendenza, accompagnata da un sentimento di accoglienza della dipendenza stessa (e non dal suo fobico rifiuto). E’ la consapevolezza e l’accettazione della dipendenza, percepita come potenzialmente positiva per la relazione e non ostacolante il processo di individuazione come soggetto, che permette gradualmente il passaggio dal rapporto di interdipendenza al rapporto intersoggettivo.Il rapporto intersoggettivo nasce dal bisogno di viversi soggetto al cospetto dell’altro. Ma più che il bisogno, che forse ancora connota il rapporto reciprocamente dipendente, il rapporto intersoggettivo lascia sorgere il desiderio di vivere l’altro come soggetto interlocutore della propria soggettività. Desiderio che nasce dal bisogno di intimità nella relazione, spazio dove mettersi in gioco in rapporto alla diversità soggettiva (e non solo alla somiglianza) dell’altro. Il rapporto intersoggettivo è accompagnato dal sentimento costante di intimità, di reciprocità, di continuità nel rapporto nonostante la diversità.

Montefoschi scrive che il dialogo intersoggettivo dell’Uno è: “Tu sei me e io sono te, ma tu sei tu e io sono io”. Direi che l’Io e il Tu lasciano spazio al Noi. La soggettività compresa nella relazione intersoggettiva non è monade, è la consapevolezza del soggetto che non è mai solo, perché si percepisce sempre dialogante con l’altro, con il mondo, con il tutto. Il sentimento che bene descrive e connota il rapporto intersoggettivo è quello dell’amore. Amore con l’A maiuscola, svincolato dal reciproco soddisfacimento del bisogno (non c’è più nessun bisogno da soddisfare, perché il bisogno è sostituito dal sentimento di “presenza” dell’altro) che è poi Amore universale.Il rapporto di interdipendenza (quello reciprocamente dipendente) e il rapporto intersoggettivo non sono alternativi né, a mio modo di vedere, il rapporto intersoggettivo è da considerarsi semplicemente un punto di arrivo più evoluto del rapporto interdipendente. Questa concezione rischia di rendere l’intersoggettività un ideale astratto, mai raggiunto, e di sentirla in contrapposizione al rapporto dipendente. Se prescindiamo dal rapporto simbioticamente dipendente, che (anche se diffuso) rientra nell’ambito della “patologia” della relazione, potremmo invece concepire una contemporaneità del vissuto interdipendente e del vissuto intersoggettivo. Questo se però accettiamo che l’intersoggettività si fondi sulla reciproca dipendenza, vista non solo come momento evolutivo, ma anche come dialettica tra il bisogno (che riporta al singolo soggetto, vissuto come Io) e il desiderio (che fa riferimento all’altro, vissuto come Tu).Per tornare all’argomento principale di questo scritto, il transfert e il controtransfert, letti in un’ottica relazionale, possono essere ulteriormente riletti nella polarità interdipendenza-intersoggettività. Da questo punto di vista potremmo vedere il cosiddetto “transfert (e controtransfert) negativo” come l’espressione, nell’attualità della relazione analitica, di un rapporto simbioticamente dipendente. Non a caso l’aggressività, i sentimenti negativi, la noia, persino l’odio, che vengono da molti autori descritti come i sentimenti tipici del transfert (e controtransfert) negativo e della “resistenza all’analisi” sono, in realtà, sentimenti controdipendenti tipici di una costante minaccia percepita nella relazione: quella della perdita dell’altro che sfugge al nostro controllo simbiotico. L’intimità della relazione non può nascere perché nella relazione simbioticamente dipendente c’è una mancanza di accoglienza per la diversità, una non-sintonizzazione, un mancato rispecchiamento, un’impossibilità a mostrarsi all’altro.Il “transfert e controtransfert positivo” (ma a questo punto possiamo omettere l’aggettivo “positivo”) sono invece segnale di una relazione reciprocamente dipendente che vive, via via, momenti di intersoggettività. Si capisce dunque come il transfert sia un momento necessario in analisi. Se letto in un’ottica relazionale, e non come “proiezione” in senso freudiano o junghiano, la comparsa di sentimenti di transfert (e di controtransfert) indica la nascita di intimità nella relazione analitica. Certo, indica anche la nascita di una dipendenza che, se accolta e vissuta reciprocamente in modo progressivamente consapevole, porta all’individuarsi come soggetti reciprocamente dialoganti nella relazione (intersoggettività). L’accoglimento della reciproca dipendenza, nella ricerca dell’intersoggettività, è ciò che permette la relazione analitica e, in futuro, permette anche il termine dell’analisi. E’ nell’intersoggettività e nel sentimento di permanenza dell’altro, infatti, che è possibile pensare al termine di un rapporto intenso come quello analitico senza pensare necessariamente a una rottura del rapporto o alla perdita dell’intimità raggiunta nella relazione. Per potersi “lasciare” in modo non traumatico, analista e paziente devono anche potersi pensare soggetti diversi, pur riconoscendo e vivendo l’intimità del loro dialogo.

Paolo Cozzaglio

 

  • S. Bettinelli (2008) Nel sogno incontro al transfert: il controtransfert in Dialoghi con il sogno. Incontri diurni e notturni con l’inconscio, Milano: Zephyro Edizioni.
  • P. Cozzaglio (2008) Sogni espliciti del paziente sull’analista in Dialoghi con il sogno. Incontri diurni e notturni con l’inconscio, Milano: Zephyro Edizioni.
  • S. Freud (1909) Cinque conferenze sulla psicoanalisi in Opere vol. 6, Torino: Bollati-Boringhieri.
  • H. Kohut (1971) Narcisismo e analisi del Sé, Torino: Bollati-Boringhieri.
  • C.G. Jung (1935) Fondamenti della psicologia analitica. Quinta conferenza in Opere vol 15, Torino: Bollati-Boringhieri.
  • S. Montefoschi (1977) L’uno e l’altro. Interdipendenza e intersoggettività nel rapporto analitico, Milano: Feltrinelli.
  • N. Schwartz-Salant (1982) Narcisismo e trasformazione del carattere, Milano: Vivarium.
  • R. Storolow, G. Atwood (1992) I contesti dell’essere, Torino: Bollati-Boringhieri.