Quando la incontro per la prima volta ha una trentina d’anni, un viso che a tratti si apre in un sorriso ma che tende a restare chiuso e buio per la maggior parte delle sedute, una certa tendenza a non sostenere lo sguardo o meglio a guardare di sottecchi, in tralice e poi a “sparare” lo sguardo in faccia. Irrompe da subito una sintomatologia invadente di attacchi di ulcerosi addominali che la lasciano anemica, dolorante e spossata, esacerbata e soprattutto sempre meno convinta di potercela fare.

Dati generali: la paziente arriva in terapia a metà lamentando sintomi fisici, molto invalidanti, e a metà lamentando una situazione familiare, con padre e madre con cui convive, molto complessa e con rilevanti aspetti conflittuali; senso di spossatezza acuta, paura di non farcela a vivere come vorrebbe, perdita di socialità, percezione costante di uno stato di tensione interiore sono la colonna sonora emotiva di (nello stesso momento) uno stato di sintomatologia ulcerosa e spasmodica sempre più attiva. Lavoriamo insieme la prima volta per circa cinque anni, e poi dopo un’interruzione di un anno abbondante, con un andamento diverso.

 Una fotografia: quando l’incontro per la prima volta ha una trentina d’anni, un viso che a tratti si apre in un sorriso ma che tende a restare chiuso e buio per la maggior parte delle sedute, una certa tendenza a non sostenere lo sguardo o meglio a guardare di sottecchi, in tralice e poi a “sparare” lo sguardo in faccia. Come se mettesse a fuoco via via e si tenesse lontana dallo stimolo salvo poi “precipitarci” vicinissima. Anch’io non la colgo immediatamente, è un processo lungo di conoscenza e confidenza il nostro. Questi dati che vi riporto li raccolgo nel tempo, ma se lì per lì avessi dovuto fermarla in una immagine, avrei oscillato lo zoom tra primi piani e sfumature acquose.

 Il Soggetto, corpo-emozione-significati: Irrompe da subito una sintomatologia invadente di attacchi di ulcerosi addominali che la lasciano anemica, dolorante e spossata, esacerbata e soprattutto sempre meno convinta di potercela fare, seppur ci provi e riprovi, soprattutto a mantenere i lavori che trova e intraprende, ma che vista la situazione così complessa dal punto di vista fisico diventano impegni intollerabili (si tratta d’ingaggi gravosi per i quali sono dati per scontati orari massacranti e un atteggiamento rampante). Prova l’agopuntura, i protocolli canonici in ospedale, l’omeopatia, lo yoga, diete depurative: ogni cura ha un suo giusto effetto, ma appena dopo il sintomo prende una forma più complessa, si acuisce magari l’anemia, oppure il sistema immunitario s’infragilisce e così lei si busca tutte le influenze che transitano nel suo ambiente; insomma tutto fa brodo nella cura ma anche nella malattia, e lei è a tratti disorientata e arresa a tratti carica di un’energia in sovrabbondanza che la proietta troppo ottimisticamente in avanti.

Che succede insieme: la paziente va peggiorando da un lato, quello fisico, e migliorando dall’altro, quello psicologico e presa da affetto per lei e mossa dal desiderio di conoscerla di più decido che appunto tutto farà brodo anche nel lavoro con me e impasteremo il fisico allo psicologico finché la paziente non emergerà con una sua bussola tutta cucita per se stessa, e anch’io d’altro canto emergerò con la mia che si trasformerà nel lavorare con lei: mi metto davanti, un tempo necessario, e comunico quest’attitudine a lasciar fiorire un processo. Il mio metodo di lavoro è l’ottima stella polare che mi guida. Il sintomo fisico entra nel lavoro analitico con i miei pazienti con lo stesso diritto d’ingresso, privilegio direi, delle comunicazioni verbali, dei sogni, del rapporto concreto settimanale, insomma è accolto con tutti gli onori del caso e lavorato psicoanaliticamente concedendogli uno statuto simbolico, un registro psichico, seppur sembra proprio non possederlo.

Trovo valida l’idea che mettendo insieme il mio e il tuo, il corpo e la verbalizzazione, il sentimento e l’immagine che possono creare, e accomunandosi soprattutto in una ricerca di senso, che va co-costruendosi, per sé e per l’altro si coltivi un fertile terreno di ricerca e s’individuino dipanandoli referenti, modelli, di una complessità profonda e processuale che in controluce fa emergere i Soggetti in gioco, soprattutto il paziente nella sua modalità di stare al mondo.

I Soggetti ( analista e paziente ) della relazione psicoterapeutica via via e sempre più nitidamente s’incarnano in una loro versione di se stessi dinamica, fluida, in movimento, processuale: detta in termini diversi di un processo vitale sia sul piano fisico sia psichico, Soggettuale proprio sul versante della complessità, con meno intoppi del passato perché più messo a fuoco.

Cercherò di fare emergere questa processualità dalle fasi che ho ricostruito qui per voi e che mi aiuteranno a condurvi nel vivo della relazione con B.

Processo terapeutico

Prima fase: dall’inizio del nostro incontrarci abbiamo lavorato assiduamente, lei a tratti si ritirava in un atteggiamento di mancanza di speranza e confusione, io d’altro canto non mi perdevo d’animo e la attendevo, finché si rimetteva a collaborare; a quel punto io potevo sentirmi “affaticata” dall’aver trainato il carro e lei al contempo si pacificava e riempiva d’entusiasmo. Quest’oscillazione relazionale tra B e me, che sono riuscita a ricostruire a posteriori, sia di B. come suo ritmo storico era piuttosto profonda e lasciava poco spazio alla calma.

Questa dinamica di “Entusiasmo /spossatezza” era poi la dinamica ritmica degli attacchi ulcerosi, che arrivavano impetuosi e dolorosi e se ne andavano lasciandola esausta.

Così via via tra mie proposte e suoi aggiustamenti costruiamo una teoria del movimento spasmodico condivisa, una teoria psicologica dello spasmo e dell’ulcerazione: sfibrato senso di non farcela, di essere sopraffatti dagli eventi, dalle dinamiche imperversanti tra padre e madre e su di lei molto spesso, e rabbia disperata autodistruttiva di contropartita al sentire di subire tutta questa pressione. In questo primo periodo analitico utilizziamo spesso l’immagine della contrazione involontaria come modo per eliminare ciò che è sentito ma in tonalità insopportabile, indigeribile e di quanto occorra trovare una linea di tenerezza e ascolto per mettere in moto gli enzimi atti a digerire ciò che si prova.

 Nota clinica: passo l’informazione che la malattia, fisica o psichica, non sia un problema in sé (e non è certo un concetto facile da trasmettere questo), che certo i sintomi vanno tenuti a bada ma che la malattia nel suo linguaggio fisico e col suo corrispettivo psichico impastato dentro è utile a uno scopo ben preciso e importante di cui occorre circoscrivere il senso ( curarsi in questa accezione, oltre che con tutte le terapie mediche necessarie ), e superato lo scopo, la situazione, i sintomi possono regredire, finire, modificarsi e a ben vedere si può vivere più fluidamente.

Solo questo evento, questa comunicazione importante che scagiona il paziente dalla colpa di essersi come dire, procurato la malattia per inefficienza o cattiveria, o passività e che mette il Soggetto all’interno di ciò che gli accade, come protagonista dei fatti della sua vita, compresa la situazione sintomatica, ha l’effetto di incuriosirlo finalmente di ciò che lo attraversa non solo a livello concreto, ma anche generale su se stesso, in collegamento alla sua storia.

Il rapporto tra una colica e il sentimento che suscita, tra un’immagine e la sensazione di qualcosa d’inesprimibile dentro di sé facilitano sempre la messa a fuoco di se stessi come Soggetti attivi, complessi e in movimento vitale.

Seconda fase: la sig.ra B passa da uno stato di prostrazione acuito da eventi costantemente dolorosi e frustranti a una stabilità un poco sui toni dell’immobilità all’inizio, direi; decide di interrompere le sue escursioni drammatiche nel mondo del lavoro con caratteristiche di arrivismo e tempi tutti dedicati all’ufficio e comincia una cura che le abbassa il tono del sistema immunitario con l’obiettivo di interrompere gli attacchi auto-immuni e riprendere forza.

Qui, in queste secche diverse dal solito andamento “attacco-fuga” della fase cruenta della colite, e della prima fase analitica fatta di entusiasmi e buchi neri affrontiamo la depressione sorda e dura che emerge: il nostro rapporto si trasforma, io divento una sorta di ancora ma anche di qualcuno da tenere a bada, alla larga, mi rendo conto del cambiamento di tonalità tra noi, tutto è più tranquillo ma anche più disperato, e a tratti B riesce a sperimentare nuovi modi di sentire: trova tonalità affettive diverse dalla rabbia o dall’entusiasmo agli eventi, comincia a sentire di più di se stessa seppur in modi bui.

Il suo rapporto d’amore che andava avanti tra alti e bassi si scioglie, lei torna a Genova stabilmente e cade in una grande pena, io mi preoccupo di perdere la presa sulla possibilità di dare senso a ciò che succede: è come se in questo lungo periodo del processo analitico e della vita di B. tutto andasse messo via, azzerato, fermato, imploso un po’ come il suo sistema immunitario. Ma questo è solo un aspetto.

D’altra parte il suo mondo di sentimenti, collegamenti, riflessioni diventa più variegato anche se nei toni della tristezza prevalentemente. In questo secondo periodo utilizziamo molte immagini in collegamento tra lo psichico e il somatico: ad esempio fermarsi dopo aver corso affannosamente ma vissuto, il riprendere fiato, come un immobilizzarsi e allora sentire di non poter sfuggire sentendosi intrappolata; o ancora possibilità di sperimentare il fermarsi come una giusta norma di prendersi cura di sé ma accanto sentimenti di vuoto e mancanza di senso perché prendersi cura di sé è un evento pensato solo concretamente e non ancora a tutto tondo.

Terza fase: si va verso una nuova parte della vita di B. Lei, dopo molte perplessità e incertezze, ritrova la fiducia nel compagno che mai ha perso di vista e riprovano a pensare a una convivenza. La malattia nel frattempo si affievolisce, gli attacchi diminuiscono e così l’anemia che la gettava in uno stato costante di prostrazione e di sentirsi fuori dal suo corpo, fuori dal tempo e dal rapporto con me.

La rabbia che emergeva e persisteva ad ogni passo, collegata a forti sensi di colpa, inadeguatezza e auto annientamento si colora finalmente di nuove tonalità: intanto non è costantemente sentita come stimolo fondamentale ( sordo ) ma parlata, interrogata, utilizzata per creare una distanza di sicurezza, diciamo così, tra lei e la madre e il padre che, presi dai loro mille problemi economici, lavorativi e di coppia, sono sordi, come del resto sono sempre stati, alla partenza della figlia, ma in questo modo la agevolano con la loro distrazione, creando la sensazione di una “benedizione”, poiché non albeggia il loro, di solito, fortissimo e disorientante disaccordo alla progettualità di B.

B. si trasferisce un paio d’ore distante dalla città, e anche tra noi nasce un nuovo modo di incontrarci: quando lei torna nelle vicinanze, una volta ogni quindici giorni, con un andamento misto. Le cose funzionano da più punti di vista: B. utilizza via via da sola un metodo che abbiamo appunto cucito per lei in analisi, s’interroga, procrastina le decisioni, sente quando è spaventata e si ferma invece di proseguire, si arrabbia ma poi recede, torna sui suoi passi, mette sul piatto della bilancia se stessa insieme all’altro e non o l’uno o l’altro, insomma vive dentro di sé ormai una relazione maggiormente dialogica, di apertura alla realtà dell’altro e di se stessa, di ricerca di senso.

E vive anche una nuova ondata di benessere, cioè i sintomi così invalidanti non ci sono più, ed anche questo permette tutto uno spazio di percezioni di se stessa con colorazioni più ampie, Ci salutiamo con affetto, lasciando l’idea di una conclusione del lavoro fatto insieme fino all’oggi e di un proseguire del nostro rapporto in termini di sentimenti appunto.

Ultimo periodo: una nuova fase terapeutica si apre dopo circa un anno, con incontri decisi dalla paziente rispetto a un suo “bisogno”, e in occasione di un pensare di coppia alla nascita di un figlio.

Tornano altri sintomi, decisamente meno invalidanti, ai quali dedichiamo una riflessione strettamente collegata al suo storico pensiero su di sé: non farcela, non poter desiderare e tornare a essere arrabbiata e senza speranza, subire l’idea del fallimento e della passività di fronte al suo desiderarsi madre e sentirsi furiosa perché quasi “derubata” della possibilità.

Tutta la sintomatologia fisica si risolve piuttosto velocemente, con l’idea che va maturando di un figlio, un progetto lavorativo più consono a lei, una nuova casa: non c’è più il figlio e basta, e la rabbia sorda per un unico enorme investimento, ma c’è l’idea di poterci fare qualcosa del suo desiderio comunque vadano le cose.

 Laura Burlando


BIBLIOGRAFIA

  • Stefano Bolognini “Passaggi segreti verso l’inconscio: stili e tecniche d’esplorazione”, Rivista di Psicoanalisi, 2010
  • Laura Burlando “Il Soggetto e il suo comportamento: modi di esprimerlo”, Quaderni Pedagogika,: ripensare l’handicap, 2003
  • Paolo Cozzaglio “Psichiatria Intersoggettiva: dalla cura del soggetto al soggetto della cura”, Franco Angeli 2014
  • Antonino Ferro “Navette per l’inconscio: reverse, trasformazioni, sogni”, Rivista di Psicoanalisi, 2010
  • Iréne Matthis “Perché ci ammaliamo?”,, Ricerca Psicoanalitica, 2006
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  • “Mettersi in gioco nel lavoro con il paziente”, Ricerca Psicoanalitica, 2009