Scrivere del padre non è facile; anzi, diciamolo con franchezza, è proprio difficile. Perché, del padre, non se ne ha che rara e/o rarefatta esperienza.
Da che Jacque Lacan, nel 1938, ne “I complessi familiari nella formazione dell’individuo” si interrogava sugli effetti che producono nel singolo individuo membro della famiglia, le problematiche in vario modo presenti nel gruppo stesso, altri trent’anni dovevano trascorrere perché lo psicoanalista francese facesse uso per la prima volta nella terminologia, nel vocabolario della psicoanalisi, l’espressione “evaporazione del padre”.
Accadde nel 1968 e fu al Congresso dell’École Freudienne de Paris.
Lacan intendeva, fin da quella prima occasione utilizzare l’espressione per indicare e descrivere un fenomeno, già tristemente evidente, di inquietante trasformazione del tessuto sociale e di evidente perdita in esso di tenuta e di stabilità della famiglia in relazione alla figura del padre.
Egli voleva richiamare l’attenzione del mondo psicoanalitico sul danno che ne sarebbe conseguito: parlò, infatti, di “cicatrice dell’evaporazione del padre”.
Molti si chiesero se si sarebbe potuta evitare la caduta nell’insignificanza della figura del padre che Lacan denunciava. Se, di conseguenza, si sarebbe potuto evitare lo smagliamento del reticolato sociale che poneva il padre quale cardine del sistema familiare e la famiglia quale fondamento aggregativo di base della società.
La domanda appare ancora attuale e l’espressione lacaniana “evaporazione del padre” è divenuta, nel frattempo, virale come il fenomeno che sta ad indicare: nei contesti soprattutto urbani e metropolitani, le statistiche con i loro risultati preoccupanti attestano l’esistenza di un’altissima percentuale di famiglie monogenitoriali e la criticità riguarda la figura paterna in quanto assente, lontana o allontanata che sia.
Per quel che concerne le cause, si conviene da più parti – e molti sono gli studiosi e gli osservatori del fenomeno nell’ambito psicologico e socio-storico-analitico che, a partire dalla messa in discussione del principio di autorità, i cui massimi detentori , così ci insegnava già l’Alighieri nel Trecento, erano l’Impero e la Chiesa – che, secondo un divenire socio-storico assolutamente consequenziale e inevitabile, non avrebbe potuto non essere colpita, scardinata ed infine abbattuta al cuore, cioè nella famiglia, anche l’autorità del padre.
Potremmo anche osservare che lo stesso padre, nello scorrere del tempo, ha tentato in vari modi di recuperarsi a sé stesso, reinventarsi fino a dar forma alle varie soluzioni che possiamo riscontrare oggi intorno a noi: aggiustamenti … del padre e della sua funzione; consequenziali rimodellamenti dell’ intera famiglia e riposizionamento relazionale in essa dei singoli membri e revisioni delle funzioni e compiti di ognuno: il tutto non senza disagio e sofferenza per coloro che ne risultano coinvolti loro malgrado.
Asteniamoci … sospendiamo il giudizio.
Osserviamo :
– che le strutture sociali, economiche, l’avvento dell’industrializzazione e del capitalismo hanno inferto un duro colpo, inevitabile, alla società patriarcale;
– che è cambiato “dentro” l’uomo/maschio: nei sogni, nelle aspirazioni, nel proprio sentire;
– ma che anche la donna che gli sta accanto è cambiata;
– e che, di generazione in generazione, lentamente (perché i cambiamenti,seppur complessi e difficili, ineluttabilmente, comunque, avanzano e fanno la storia dei singoli e la Storia dei popoli),il cambiamento ha riguardato, nella reciprocità, le aspettative degli uni, i maschi, rispetto alle altre, le donne, e delle donne rispetto ai maschi, e di entrambi rispetto alla loro prole.
Perfino le aspettative dei figli nei confronti dei loro genitori, presi singolarmente o come coppia presentano delle novità.
Luigi Zoja, ad esempio, rileva come ci sia del paradossale nelle attese dei figli rispetto al padre: lo vogliono, a casa, dolce, affettuoso, ma, al contempo, capace, fuori casa, a “dar di mani” per difenderli: aspettative disorientanti, dunque, che confondono questi uomini della post-modernità, che non sanno più quale sia il loro posto e il loro compito/funzione nella famiglia.
Così, quando noi terapeuti apriamo la porta dei nostri studi, ci ritroviamo davanti uomini confusi, disorientati, immaturi, simbiotici, visibilmente in difficoltà; al loro dire poniamo attento ascolto ed ecco, cogliamo il livello psicologico di eterni bambini in cui stazionano da tempi remoti: sono pervasi spesso da un infantile sentimento di nostalgia, loro stessi, per il padre … padrone, che li ha concepiti e che, a sua volta, era già portatore dei segni del travisamento e distorto modo di intendere sé stessi secondo la visione a connotazione autoritaristica, che si incardinava sul concetto di superuomo ed apparteneva al clima culturale dei tempi della loro formazione.
“Siamo tutti figli dei nostri tempi”, recita un noto detto degno di Monsieur de La Palice, ma anche pericoloso per l’insita cedevolezza che presenta a farsi scusa e giustificazione utilizzabile dai più a copertura delle proprie manchevolezze.
Lo spazio psichico ridotto, polarizzato su due estremi, il Puer e il Senex denuncia in questi padri, naufraghi approdati al nostro studio, neppure sempre giovani anagraficamente, l’incapacità di procedere ad una sintesi personale, creativa ed evolutiva, a promuovere dentro di sé un processo di analisi e complessificazione degli eventi della realtà, in un approccio felicemente riflessivo.
L’ipertrofia dell’Io, esasperata in questi pazienti fino a causare una sorta di accecamento psichico, impedisce loro la visione dell’altro.
Colpisce, anche, come la presenza di un Io ipertrofico si accompagni in questi soggetti all’evitamento metodico delle responsabilità e alla presunzione e pretesa di aver diritto a detenere il potere in modo esclusivo all’interno del gruppo-famiglia.
Appaiono, in questi padri della nostra attualità, tratti del quadro diagnostico nevrotico, ma anche psicotico; stanno in quello spazio che si trova tra i primi e i secondi, sconfinando a seconda del caso, di qua o di là: li vediamo tremebondi, ma anche possiamo sentire le loro urla mentre strepitano (se c’è pubblico, meglio. Il loro narcisismo se ne sente maggiormente appagato): “… il padre sono io e guai a chi mette in discussione la mia autorità!” (Paolo Ferliga “Il segno del padre”, pag. 159).
Al di là degli aspetti che, in descrizione, possono apparirci teatrali, il problema rappresentato dall’assenza del padre nella famiglia è fenomeno veramente grave, su un piano individuale e sociale e rappresenta una delle tematiche più ricorrenti in ambito clinico.
E’ da valutarsi il fatto che l’intervento educativo messo in campo dalle varie agenzie educative non guardi con la dovuta e premurosa preoccupazione alla crescita morale dei maschi, futuri padri; non ce ne si occupi e si dia valore soltanto o precipuamente al loro “fare”, agli aspetti “performantici” del vivere.
Più attenzione meriterebbe, di fondo, nella clinica, rivolgersi metodologicamente al paziente per la sua natura di soggetto riflessivo e non come portatore di un sintomo da “riadattare” alla norma o come un individuo da recuperare alla “normalità” o come egli fosse una mera “risorsa umana”.
Scevri da pericolosi atteggiamenti nostalgici per un tipo di padre che ha fatto il suo tempo e risulta del tutto obsoleto oggi, dobbiamo ripensare la funzione paterna (funzione edipica, sostegno alla madre, fornitore di mezzi di sussistenza, educatore capace di proporre una scala di valori, affetti importanti e un buon modello di identificazione, un valido “allenatore” rispetto alle difficoltà ed ai traguardi della vita…).
Incominciamo, ad esempio, dal linguaggio, dando al padre il nome di Padre, papà, ed evitando minimizzazioni banalizzanti, se non anche grottesche e derisorie, emergenti nel diffuso uso di anglicismi e neologismi (papy e mammo, ad esempio). Anche ai figli rivolgiamoci chiamandoli con il loro nome, che è anche una fonte di ispirazione per loro nella crescita; rinunciamo a ridicoli appellativi (popo/popa …) o ad inverosimili titoli nobiliari e sciocchi vezzeggiativi (principessa, fanciullina …).
Non arretriamo davanti ai nostri compiti genitoriali ed alla paura che ci fanno, nascondendoci dietro la falsa idea che i bambini di coppie separate abbiano una marcia in più come qualcuno sostiene – lo si diceva anche dei sopravvissuti ad Auschwitz!
Laura Zecchillo